Gli argenti del Museo Tarantini di Brindisi – L’Arca di S. Teodoro

Con l’apertura nel 2000 del Museo Diocesano G. Tarantini (Chiesa di Santa Teresa) furono raccolti, conservati e successivamente anche esposti, tra le altre cose, una ventina di oggetti di argento appartenuti alla liturgia ecclesiale.
Si trattava, ovviamente, di oggetti rivenienti dalla storia di Brindisi che, lo ricordiamo, nel passato è stata anche sede della Zecca , fondata dagli Svevi e poi chiusa dagli Angioini, dove operarono maestri zecchieri il cui lavoro era affine a quello dei maestri orafi. Questa probabilmente fu la causa di un forte impulso all’artigianato locale come gli oggetti d’età medievale rimastici autorizzano a credere, anche se a Brindisi non si è mai registrata la formazione di una corporazione di maestri orafi.

Purtroppo, non molto ci è pervenuto a causa dei saccheggi bellici, i trafugamenti e le devastazioni subite nel corso dei secoli, quello che resta però ci testimonia l’importanza e il prestigio delle collezioni brindisine.

L’Arca di S. Teodoro

Pezzo di eccezionale rilevanza storico-artistica, che per Brindisi costituisce motivo di vanto e che non ha pari in Puglia, è l’Arca di S. Teodoro, testimonianza dell’argenteria dell’età delle crociate.
Come nei cicli degli affreschi medievali le formelle metalliche del prezioso manufatto, inchiodate su un’armatura lignea (forse non originale), narrano in sequenza la vicenda terrena del milite o generale (nei martirologi occidentali se ne ricordano due, ma il martire è uno solo) Teodoro d’Amasea, della regione anatolica, che morì bruciato il 9 o il 17 febbraio in un anno imprecisato tra il 306 e il 311, al tempo dell’imperatore Massimiano; il corpo del santo fu custodito nell’odierna Aukhat.
Il reperto, più volte soggetto a schiodature e a interventi nel corso del tempo, era in origine probabilmente più piccolo e chiuso da coperchio. Secondo alcuni le reliquie del Santo giunsero a Brindisi, avvolte in uno straordinario sciamito (*) tessuto in seta e in oro degli inizi del XIII secolo, durante il regno di Federico II, il 9 novembre 1225, in occasione delle nozze con Isabella di Brienne.

Sciamito del XIII sec.

Una delle ipotesi vuole che le sue ceneri fossero state collocate nell’idria di marmo serpentino databile all’VIII secolo, conservata nello stesso Museo. Nel Medioevo infatti era pratica abbastanza frequente racchiudere le spoglie di un Santo in un prezioso scrigno.

Idria dell’VIII sec.

E’ difficile stabilire con certezza l’anno di realizzazione della cassa brindisina di San Teodoro che con opportuna cautela va, forse, datata tra i decenni centrali del XIII e la fine del secolo; più arduo ancora è individuare l’atelier di produzione e/o la paternità del suo ignoto artefice. Le due colonne e le mura turrite di Brindisi viste dal mare, sbalzate su una delle formelle dell’Arca di San Teodoro, portano a ritenere che l’artefice abbia potuto osservare con i propri occhi tali elementi architettonici. Questa ipotesi di datazione, inoltre, viene a essere sostenuta dall’esame delle armi dei soldati. Le Sacre reliquie del cavaliere Teodoro dovettero quindi pervenire via mare a Brindisi e qui dovette essere appositamente fabbricata l’arca destinata a contenerle.

Nell’arca le quattro facce verticali sono completamente rivestite di lastre d’argento; la frontale e la laterale sinistra figurate con rilievi a sbalzo. Nella parte superiore è chiusa con due grate, una semplice di ferro, l’altra d’argento cesellata. Le varie lastre d’argento furono realizzate, ad eccezione della “Vergine col Bambino” sulla testata sinistra della cassa e del “San Giorgio a cavallo che uccide il drago” sul lato frontale, nella prima metà del XIII secolo. Sul lato frontale sono, da sinistra verso destra, le immagini affiancate dei due santi vescovi Leucio e Pelino, benedicenti alla greca, con pallio, mitra e pastorale; episodi salienti della vita di S. Teodoro e traslazione delle sue reliquie in Brindisi; condanna di S. Teodoro.

Sulla testata sinistra è riproposta la passio di S. Teodoro. Al Cinquecento inoltrato, va datata la lastrina raffigurante la Madonna con il Bambino, qui utilizzata come rattoppo. Di altra mano, inoltre, è la lamina con le due figure vescovili di Leucio e di Pelino.

Nostro articolo su facebook del 18 ottobre 2019

S. Teodoro d’Amasea – L’Arca d’argento e lo Sciamito
Nel XIII secolo, in età federiciana, forse il 27 aprile del 1210 come vuole la tradizione o più probabilmente il 1225, in occasione delle nozze di Federico II di Svevia con Isabella di Brienne – Regina di Gerusalemme, celebratesi il 9 novembre nella Cattedrale, le reliquie di san Teodoro dʹAmasea furono traslate in Brindisi da Euchaita. Le spoglie, giunsero avvolte in uno sciamito operato a due trame.
Il tessuto di seta dal fondo dorato è ornato di medaglioni polilobati disposti in serie ordinate in orizzontale e verticale. Un fregio continuo ad archetti, con piccoli fiori rivolti allʹinterno, costituisce la cornice del medaglione e racchiude due grifi rampanti, addossati nei corpi e contrapposti nelle teste, caratterizzati da anatomia poco marcata, grande occhio, becco adunco, accenno di barba, orecchie equine, zampe e parte posteriore del corpo leonine, ali stilizzate. (..)
Il telo presenta evidenti caratteristiche tecniche e stilistiche di ispirazione bizantino‐sasanide.
La preziosità tecnica è accompagnata a quella materica: seta e oro membranaceo noto fino alla fine del Medioevo come ʺoro di Ciproʺ prodotto anche a Bisanzio, introdotto in Occidente attorno al IX secolo compongono il telo. Studylibit.com)

L’Arca, ove furono depositate le spoglie di San Teodoro, in abete, è coperta da lastre sbalzate d’argento in cui sono scene della vita del santo, i protovescovi di Brindisi Leucio e Pelino e l’arrivo delle reliquie nel porto.
La lastra qui mostrata, eseguita da artigiano locale, equivale ad un prezioso documento storico anzi meglio, ad una vera e propria fotografia della Brindisi medievale, con le sue due colonne ancora integre e fuori dalla cinta di mura sopra la collina di ponente.
Anche visivamente trovano quindi conferma le ipotesi di studiosi e archeologi che parlavano di una vecchia rocca (fortezza ndr) normanna coincidente con l’arx (rocca, cittadella, fortezza) romano-messapica e congrua al suo perimetro difensivo “sul sito oggi proprio della chiesa di San Paolo, com’è esplicitato in modo inequivocabile dai documenti brindisini” attiva almeno sino al 1224 e in abbandono nel 1252; la connessione con la costruzione del castello grande e di una nuova cinta muraria, in conseguenza dell’espansione dell’abitato verso ponente, appare evidente.
Nell’incisione si vedono anche quattro torri ma solo di una la presenza appare accertata, parliamo della Torre detta di San Basilio che si sa eretta dai bizantini quando nell’886 circa, il generale Niceforo Foca liberò nel porto alcuni prigionieri per dare inizio ai lavori.

“La torre, secondo la testimonianza del Casmiro, era di considerevole altezza, ospitava la chiesa di San Basilio ed era utilizzata come faro in uno con le vicine colonne del porto. Visibile ancora nel XVII secolo, fu diruta per dar luogo a civili abitazioni; ne trovò alcuni resti, consistenti in grossi blocchi di carparo, nel 1887, Giovanni Tarantini, presso Largo Colonne, sul lato est della via che porta a Piazza Duomo.” (Il castello, la Marina, la Città – Mostra documentaria, Archivio di Stato Brindisi + 2; pp. 32-33)
Di parere leggermente diverso è R. Alaggio in Brindisi Medievale (p.169), che afferma: “…esigenze prospettiche hanno guidato l’ignoto autore del rilievo frontale in lamina d’argento dell’Arca di S. Teodoro d’Amasea (XIII secolo) a delineare le colonne al centro della rappresentazione della città, fortemente simbolizzate, tant’è che sono state omesse le due basi. Pertanto, (..) riteniamo che la collocazione delle due colonne fuori dal perimetro murato e turrito della città, peraltro con le basi allo stesso livello di quello della murazione, non possa interpretarsi come frutto di una fedele rappresentazione della realtà, come sostenuto da vari studiosi, bensì come una sintesi simbolica, una sovrapposizione iconologica. Unico artificio attraverso cui l’artista poteva pervenire alla unitaria rappresentazione della città di Brindisi, per la sua immediata riconoscibilità, mettendone in risalto le componenti simboliche più rappresentative (..)”.

Sul lato frontale sono, da sinistra verso destra, le immagini affiancate dei due santi vescovi Leucio e Pelino, benedicenti alla greca, con pallio, mitra e pastorale; episodi salienti della vita di S. Teodoro e traslazione delle sue reliquie in Brindisi; condanna di S. Teodoro. Sulla testata sinistra è riproposta la passio di S. Teodoro.

 

 

Le suppellettili d’argento

Il reliquiario a braccio di San Pantaleone (fine del XV inizi del XVI secolo), come l’altro gemello di san Ciriaco (fine del XV inizi del XVI secolo ), poggia su un basamento in legno dorato, realizzato in epoca successiva.

Il primo è adibito a contenere la reliquia di san Pantaleone, medico di Nicomedia. Precario è lo Stato di conservazione del manufatto, dovuto a una serie di circostanze: notevole ossidazione dell’argento; presenza di numerosi fori di precedenti chiodature; diverse ammaccature; perdita delle pietre policromate, delle quali ne restano due sulle otto originarie.
Su un supporto, probabilmente ligneo, di forma conica sono applicate sottili lamine d’argento. Sull’avambraccio, privo di elementi decorativi, è ritagliato il ricettacolo circolare con cornicetta rilevata, dove è depositato un frammento del braccio di san Pantaleone e due stelline d’argento di epoca recente. Appena oltre, tra due camicette lisce, si sviluppa una fascia rettangolare con un’iscrizione a caratteri cubitali, PANTALEONI, emergente da un fondo sablè.(..) Al polso è attaccata la mano, colta nell’atto della benedizione. (2)

Il secondo è simile al reliquiario di san Pantaleone e prodotto dallo stesso argentiere, ma contiene un frammento osseo di san Ciriaco martire, patrono di Ancona.
Il ricettario è ellittico e l’iscrizione sul polso reca il nome di S. CIRIACI-MARTIRI. (2)

Sono disposti  agli angoli in fondo alla teca che li contiene.

Reliquiari di S. Pantaleone e S. Ciriaco. Brindisi, Museo Diocesano

Al Museo Diocesano di Brindisi appartengono due Piatti per elemosina (XV-XVI secolo), esemplari diffusissimi d’esplicita derivazione nordica, rispettivamente provenienti dalle locali chiese di San Paolo e di Santa Teresa.

Piatti per elemosina , Brindisi, Museo Diocesano

Un notevole pezzo d’argenteria del primo Seicento, caratterizzato da peculiari soluzioni barocche, è un Calice (altezza cm 28,6), già conservato presso l’Episcopio brindisino. Il piede
circolare su orlo liscio presenta due fasce con differenti motivi vegetali; il corpo è scompartito da tre testine angeliche in argento dorato, fuse a parte e assemblate per mezzo di viti, come le altre testine sovrastanti, che sono raccordate al primo collarino da una fila di perline; i campi triangolari che vengono a definirsi sono decorati da fiori e da elementi vegetali.
Il fusto è caratterizzato da una serie di collarini e da un vistoso nodo ovaliforme, anch’esso tripartito dagli stessi elementi presenti sul piede. Analoghi decori, inoltre, caratterizzano il sottocoppa, bordate in alto da un sottile cordolo e da una ghiera a traforo di volute contrapposte, con palmette e con pinnacoli; la coppa è dorata. Sotto il piede è inciso MARIA IACINTHA PINCETI 1638, ma di questa devota e dell’originaria provenienza del reperto non si sa alcunché.
Il calice, dalla linea elegante e dall’esecuzione curata, è riconducibile all’ambito tipico dell’oreficeria barocca napoletana, tuttavia è ignoto l’esecutore.

Argentiere napoletano, Calice, 1638. Brindisi, Museo Diocesano

Di gran pregio è un Ostensorio raggiato (altezza cm 43,3), consegnato al Museo Diocesano di Brindisi dal Capitolo Cattedrale. Il piede circolare, fondato su basso gradino, è decorato a incisione da un insieme di volute, di foglie e di palmette. L’alto fusto, dalla linea movimentata, presenta quattro collarini e un nodo piriforme, decorato da una teoria di foglie d’acanto e da baccelli; su questo insiste un altro nodo a balaustro con incisioni vegetali. Una bella testa di angelo alato funge da raccordo tra il fusto e la sovrastante teca eucaristica, perimetrata da sottilissimi raggi lanceolati e fiammeggianti e da decori incisi. Tutt’intorno al ricettacolo vitreo sono realizzate a cesello testine di cherubini, intervallate da festoni di fiori e da frutti.
In alto è posta la croce, purtroppo rotta. Lo sportellino incernierato nel verso è bordato da una graziosa ghirlanda, il cui andamento circolare è interrotto, come sul recto del manufatto, da
quattro piccolissime teste di angelo. In mancanza di notizie storiche o archivistiche, solo l’analisi formale permette di datare questo ostensorio alla prima metà del Seicento. (..)

Argentiere napoletano G.PS, Ostensorio, prima metà del XVII secolo. Brindisi, Museo Diocesano

Un altro considerevole argento liturgico accresce la dotazione di pezzi napoletani del Museo Diocesano di Brindisi: un Piatto da parata diametro cm 47,7  pervenuto dal Capitolo Cattedrale.

E’ sostanzialmente liscio, tranne che per l’orlo cordonato e per l’incisione sul fondo interno, raffigurante uno scudo liscio contornato da volute fogliacee e da due testine umane. Di queste, quella in alto è sovrastata da un cesto traboccante di piccoli frutti e da tralci di fiori; alle estremità, sostenuti da mensole, sono raffigurati due angeli a figura intera che stringono un ramo di fiori.

Andrea Califano, Piatto da parata, 1694. Brindisi, Museo Diocesano

Manufatto tipico della feconda stagione artistica della Napoli barocca è il Calice (altezza cm 22) in rame dorato (piede e fusto) e in argento (coppa), di recente donato al Museo Diocesano di Brindisi dalla famiglia Antonelli-Incalzi di Ostuni. È caratterizzato da un piede circolare rigonfio, impostato su gradini digradanti e impreziositi da fasce vegetali e da ovoli; motivi vegetali incisi ravvivano anche il piede e il collo. Il fusto consta di un nodo a vaso, intervallato da collarini di raccordo a disco, anch’essi decorati con motivi fitomorfi, con ovuli e con dardi. La coppa, leggermente svasata, è inserita in un sottocoppa, ornato da un motivo vegetale e da volute contrapposte, ed è segnato superiormente da un cordolo liscio e da un bordo a traforo di gigli.

Argentiere napoletano, Calice, circa 1650-1670. Brindisi, Museo Diocesano

Dalla chiesa delle Cappuccine di Santa Maria degli Angeli di Brindisi provengono due considerevoli legature di libro liturgico, pressappoco coeve conservate nel Museo Diocesano; testimoniano come anche i monasteri di clausura, adottarono e usarono preziosi arredi liturgici, imposti dalla moda imperante.
La Prima Legatura (cm 32,5×25), è decorata su entrambi i piatti da un ricco repertorio a traforo di girali acantiformi, che, stagliantisi dal fondo rosso del velluto, delimitano lo stemma dell’Ordine francescano. In basso è incisa un’iscrizione da considerarsi un’aggiunta, al pari di quella sul piatto posteriore: S(uor)a Maria Geronima Martini donò il presente nel tempo del suo sacristanato. Gli stessi decori compaiono sul piatto posteriore (..). Il dorso della legatura è scandito da sei riquadri metallici sovrapposti, con volute contrapposte e motivi floreali; eleganti e di buona fattura sono i due ganci a traforo, con testine di angelo fra volute. La legatura custodisce un Messale, stampato a Venezia nel 1731. (..)
La Seconda Legatura in esame (cm 33,5 x 25) con la già ricordata tecnica a traforo e a sbalzo ravviva le due coperte, caratterizzate da motivi a volute contrapposte, con racemi di foglie d’acanto e con gigli, così da creare un raffinato gioco cromatico. Sulla facciata principale compare un cartiglio sagomato che include lo stemma dell’Ordine francescano; su quella posteriore è la figura di Santa Maria degli Angeli, cui è dedicato il monastero delle Cappuccine brindisine.
Il dorso è finemente lavorato con motivi vegetali, mentre le borchiette sono realizzate a traforo. La legatura racchiude un Messale Romano stampato a Venezia nel 1738. (..)

Legature di libri liturgici, XVIII sec. Brindisi, Museo Diocesano

Di discreta esecuzione è una Croce astile (altezza cm 196; croce cm 37×27), realizzata in due tempi, pure proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli e ora nel Museo Diocesano di Brindisi. Il manufatto era, forse, in origine una croce d’altare, commissionata negli anni Trenta del Settecento dalla citata Suora Cherubina Leo, come si evince dall’iscrizione dedicatoria: S(uo)r M(ari)a CHERUBINA LEO Donò. Sul recto della croce, perimetrata da semplici cornicette, è posto il Cristo in argento fuso a tutto tondo, sovrastato dall’acronimo INRI, mentre in basso è avvitato il teschio, simbolo di Adamo; i terminali sono costituiti da fastigi che includono testine angeliche. Sul verso, all’innesto delle traverse, è visibile un fiore a otto petali; l’intero spessore della croce è lavorato con un motivo a zigrinatura. Alla semplicità dell’asta si contrappone il nodo, interessato da un ricco apparato di foglie lanceolate, di baccelli lisci e di zigrinature; tali soluzioni decorative sono chiaramente riconducibili al nuovo stile neoclassico.
L’arco cronologico di datazione del nodo, è dato dall’impressione del punzone di garanzia della città di Napoli con la raffigurazione della testa di Partenope, introdotto con legge da Ferdinando I di Borbone e valido dal 1824 al 1831. (..)

Argentieri napoletani, Croce astile, XVIII e XIX sec. Brindisi, Museo Diocesano

Di sicura e tipica produzione napoletana del XVIII Secolo sono le tre Cartegloria (cm 38×37, quella grande; 26×23, ciascuna delle due piccole), pure provenienti dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli. Si tratta di manufatti argentei liturgici disposti sugli altari, dovunque introdotti in età controriformista.
I pezzi, caratterizzati da una certa grazia ed eleganza ma di tipologia piuttosto diffusa, poggiano su un alto zoccolo con cornice rilevata e presentano motivi tipicamente rocaille: cornici mistilinee, contornate da un susseguirsi di volute concave e convesse, profilate da foglie d’acanto e da minute ghirlande. Nella parte bassa è sbalzato lo stemma coronato dell’Ordine francescano. Dai punzoni rilevati si evince che le tre cartegloria furono realizzate a Napoli in un anno imprecisabile del Settecento. L’autore fu l’argentiere Simone Cimmino Di una di queste cartegloria si ha memoria in una carta d’archivio: nel 1771 l’argentiere Pasquale de Laurensiis veniva interpellato per «. . . pulire le cornici della Carta di Gloria del Principio. . .”.

Simone Cimmino, Cartegloria, circa 1730-1738. Brindisi, Museo Diocesano

Dal Capitolo Cattedrale di Brindisi è pure pervenuta al Museo una Legatura di libro liturgico (cm 37,5 x 26,5), che contiene un Messale Romano edito a Napoli nel 1775. Su entrambe le coperte sono disposti i quattro cantonali con volute e girali fitomorfi, mentre nel mezzo campeggia lo stemma del vescovo Antonino Sersale (1743-1750), committente dell’opera; sono andati, invece, perduti i due fermagli metallici che assicuravano la chiusura del libro.
E’ possibile ipotizzare che questa legatura sia stata realizzata intorno al 26 giugno del 1747, giorno della riapertura della cattedrale brindisina dopo il terremoto del 20 febbraio 1743, se non proprio per il Giubileo del 1750. (..)

Argentiere napoletano, Legatura di libro liturgico, circa 1747-1750. Brindisi, Museo Diocesano

Nel Museo Diocesano di Brindisi sì conserva un’altra legatura di libro, del tutto identica alla precedente ma di dimensioni maggiori (cm 40×28); all’interno è presente un Pontificale stampato a Venezia nel 1731

Argentiere napoletano, Legatura di libro liturgico, circa 1747-1750. Brindisi, Museo Diocesano

Nel Museo Diocesano di Brindisi è ora esposto un Pastorale (altezza cm 172), proveniente dall’Episcopio. L’intera asta, a sezione circolare, è interessata da un motivo a losanghe, includenti un fiore quadripetalo; al nodo, a vaso liscio, si salda il riccio, con voluta vegetale in argento pieno, impreziosito dai tipici elementi fogliacei, da fili perlinati e da testine di angeli.

Argentieri napoletani, Pastorale, XVII e XVIII sec. Brindisi, Museo Diocesano

La Palmatoria (cm 7,4×21,8) del Museo Diocesano di Brindisi è un elegante pezzo in argento fuso, già in dotazione del Capitolo Cattedrale. La padellina, dal contorno movimentato, poggia su tre piedini a forma di zampa di rapace e su un anello ovaliforme all’altezza del manico. L’alloggiamento della candela è costituito da un bocciolo, forse un elemento riutilizzato, decorato esternamente da una sequenza di foglie lanceolate.

Argentiere napoletano, Palmatoria, XVIII sec. Brindisi, Museo Diocesano

Completa cronologicamente la collezione di argenti sacri del Museo Diocesano di Brindisi un Servizio da lavabo, proveniente dal Capitolo Cattedrale. Di fattura piuttosto modesta è databile tra gli anni Ottanta-Novanta del XIX secolo ed è costituito, come altri simili, da un Bacile (diametro cm 32) e da una Caraffa (altezza cm 27,5).
La tipologia dei due reperti e i motivi vegetali sono di evidente stile eclettico, che richiama quei decori di gusto archeologico, al tempo imperanti. Il manico spiraliforme della caraffa è realizzato a fusione; le altre componenti sono a sbalzo e a cesello su un fondo puntinato, pur presentando ampie superfici lisce, dettagli tipici della tradizione orafa napoletana.

Argentiere FB. Servizio da lavabo, circa 1880-1890. Brindisi, Museo Diocesano

 

 

 

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Mostra Oreficeria medievale in Puglia

Nell’ambito delle manifestazioni previste da Vie Sacre Experience – Percorsi e manifestazioni del Sacro, si è tenuta a Brindisi dal 29 Ottobre al 1 Novembre 2015 nelle sale del Palazzo Granafei-Nervegna,  l’esposizione dell’Antologia fotografica dei reperti curata da Giovanni Boraccesi. Ci sembra giusto far conoscere queste meraviglie di oreficeria create nella nostra Puglia nei laboratori artigianali del medioevo, tra cui trova posto a ragione anche l’esposizione degli argenti brindisini innanzi pubblicata.

 

La conoscenza della produzione orafa medievale presente in Puglia, di tipo essenzialmente liturgico, ha conosciuto negli ultimi tempi un favorevole incremento, grazie al progredire degli studi e al restauro di taluni reperti.
La particolare posizione di questa regione bimare, sospesa tra Oriente e Occidente, ha favorito un continuo arricchimento culturale del territorio, purtroppo anche vessato da frequenti invasioni, distruzioni e ruberie. A tal proposito, un grido di giubilo s’innalza oggi per il ritrovamento, da parte del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, del Crocifisso in avorio della Cattedrale di San Sabino a Canosa (trafugato nel 1983 e recuperato a Parigi nel 2008) e della Stauroteca della Chiesa di San Leonardo abate a San Giovanni Rotondo (trafugata nel 1977 e recuperata a Firenze nel 2013).
II capitolo dell’oreficeria, qui sintetizzato da una esauriente rassegna fotografica, va dall’X ai primissimi anni del XVI secolo, vale a dire un ampio arco di tempo in cui la Puglia, dopo Bisanzio, fu sotto il dominio dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi.
In ognuna di queste stagioni, in virtù degli intensi legami economici e culturali con la capitale del nostro regno e con quelle di altri stati, si confezionarono manufatti liturgici di straordinana qualità e provenienza commissionati da re, principesse, feudatari, vescovi, ecclesiastici, ordini religiosi e semplici devoti. I modelli più disparati, lo splendore dell’oro e dell’argento frammisto a smalti e pietre preziose o semipreziose, caratterizzano molti di questi oggetti realizzati in Abruzzo come a Napoli, a Venezia come in Dalmazia, ad Ascoli Piceno come negli ateliers d’oltralpe ma anche in Puglia, data la schiera abbastanza nutrita
di orefici e argentieri citati nei documenti e se, almeno dal XV secolo, era in uso il punzone di Taranto (TAR), di Lecce (LICI) e di San Marco in Lamis (SM), quest’ultimo regolato dallo Statuto comunale del 31 luglio 1490.
Nel luminoso percorso di quest’arte hanno rilievo, per esempio, gli argenti conservati nel Santuario dell’Arcangelo Michele di Monte Sant’Angelo, nella Cattedrale di Troia, nella Cattedrale di Lucera, nella Basilica di San Nicola di Bari, nella Cattedrale di Taranto e nella Basilica di Santa Caterina d’Alessandria di Galatina.

 

 

Si ringrazia l’amico Mario Carlucci per la collaborazione

Note:
(*) Lo sciamito (pr. sciàmito) è un tessuto medievale di particolare struttura e intreccio, contraddistinto da un aspetto compatto, satinato e brillante particolarmente adatto, per il carattere sostenuto, a fungere da supporto a sontuosi ricami.

Bibliografia e sitigrafia:

Giovanni Boraccesi, Le suppellettili in argento del Museo Diocesano Giovanni Tarantini di Brindisi. C. Grenzi editore, maggio 2011 Grafiche Gercap srl

Giovanni Boraccesi, Oreficeria sacra in Puglia tra medioevo e rinascimento. C. Grenzi editore.

 

 

 

0 commenti

  1. Aspettavo questo lavoro! Quindi grazie, anche se purtroppo non ci sono le foto dei marchi, spero che si possano fotografare ed inserire, per una migliore disanima.
    Per cui tralascio di commentare gli argenti e commento gli elemosinieri di Brindisi. Anzitutto sarebbe stato importante indicare le dimensioni, perchè in base a queste si può datare già approssimativamente il piatto o bacile. In ogni caso quello con la girandola, di modulo maggiore (42 cm o più), è più antico ma vorrei sapere chi l’ha datato al XV secolo! A mio avviso è del XVI inoltrato, sempre prima metà, forse primo quarto in funzione dell’iscrizione che non riesco a leggere stante la sgranatura della foto se la ingrandisco. Non è gotico fiorito come noi abbiamo in Italia, ma conosco questa scrittura per averla già esaminata su molti piatti.
    Il piatto con Adamo ed Eva è più recente, fine XVII inizi XVIII secolo, con la scritta in tedesco antico (non gotico) ERWART DER IN FRIDE. Ci sono molte varianti ma il senso augurale non cambia:
    ICH WART DER IN FRIDE
    ER WART DER IN FRID(E)
    GEHWART DER IN FRIDE
    CH WART DER IN FRIDE
    GH WART DER I NFRIR (tardo)
    ICH WART DER IN FRIDE
    Traduzione: Io vi preservo (vigilo, conservo) in pace
    ER WART DER IN FRID(E)
    Traduzione: Egli vi preservi (vigili, conservi) in pace
    Questa iconografia ha avuto molto successo dal XV al XVII secolo, in funzione antifemminile (la donna
    vista come causa di tutti i mali e della dannazione eterna) specie laddove funzionavano i roghi della
    Santa Inquisizione. Scompare col secolo dei lumi.
    La cosa interessante è che anche se questa iconografia nasce nel distretto di Norimberga dove c’era una potente gilda di ottonai in effetti il piatto proviene da Mechelen (o Malines) nelle Fiandre, e lo denuncia il piccolo modulo che dovrebbe essere 37 cm. Ne ho uno anche io, raro perchè in peltro.
    In alto a sx della testa di Adamo ci dovrebbe essere nel cartiglio la scritta Adam und Eve. A dx c’è il palazzo che racchiude il giardino dell’Eden, chiuso ormai perchè Eva ha già preso il pomo. Il riferimento generale è al giardino delle Esperidi.

  2. In ogni caso mi potresti procurare il catalogo che hai fotografato? mi servirebbe molto per studio!

    1. Era una antologia fotografica su pannelli e non ho visto traccia di catalogo. Il curatore era Giovanni Boraccesi che mi risulta essere un grande esperto in argenti. Ci sono tre libri dello stesso Boraccesi che ti potrebbero dare una risposta a tutte le domande: “Le suppellettili in argento del Museo Diocesano G. Tarantini di Brindisi, Oreficeria sacra in Puglia tra Medioevo e Rinascimento, Il sole eucaristico. Buona serata.

  3. Qui la più esaustiva ricerca attualmente disponibile in campo scientifico sugli elemosinieri, per quanto mi risulta. Ci ho dedicato molti anni ed ancora continuo, ovviamente. Sono anche direttore responsabile di un Centro studi e ricerche s’affuente ad Ottana (NU), dove l’elemosiniere viene così chiamato. Ovviamente mancano i fondi e il centro Studi non riesce a lavorare decentemente…

    https://www.academia.edu/11184523/Da_elemosiniere_ad_affuente_origine_ed_evoluzione_del_piatto_da_questua_da_Donatello_al_gruppo_folk_-_di_Mario_Galasso_release_1-3-2015

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