La condizione della donna in Terra di Brindisi (1860 – 1915)

Istruzione – Gli anni della scuola 

Il primo censimento del regno d’Italia del 1861 rivela che nella provincia di Terra d’Otranto l’analfabetismo nelle donne rasentava il 92%. La prima vera scuola elementare femminile fu inaugurata a Brindisi nel 1863, con sede provvisoria in un locale dell’ex convento di S. Chiara. Le maestre venivano da Lecce perchè a Brindisi nessuna era in possesso di idoneità. Per diversi decenni le classi femminili furono alloggiate in sedi sempre diverse, passando da Palazzo Roncella a casa De Marzo, alle ex Scuole Pie, fino ad arrivare dopo la prima guerra mondiale ad avere la collocazione definitiva nell’edificio scolastico appositamente costruito nell’area dell’ex convento di S. Maria degli Angeli. 

Il tasso di evasione scolastica era elevatissimo in quegli anni, vuoi per la miseria della popolazione che viveva nelle campagne e che aveva bisogno anche delle braccia femminili, vuoi perchè si riteneva che mandare le figlie a scuola fosse “nocivo e peccaminoso”, un lusso superfluo, una perdita di tempo.

Nel 1871 solo il 20% delle bambine brindisine in età scolastica frequentava la scuola, il 71% era completamente analfabeta, mentre il 12% sapeva solo leggere. Fino al 1914 l’evasione scolastica delle bambine non scese mai al di sotto del 45-50%. Mentre ai maschi si fornivano gli strumenti per continuare gli studi o intraprendere un lavoro, alle bambine a scuola venivano offerte le cognizioni necessarie per governare la casa ed educare i figli e grande importanza veniva data ai “lavori donneschi”. La carriera scolastica delle ragazze brindisine terminava con le scuole elementari.

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Gruppo di scolare di una classe elementare con la maestra. 1901 Proprietà G. Nicolardi, Brindisi

Nel 1866 l’unica scuola secondaria presente a Brindisi era il ginnasio comunale, cui si affiancarono, dopo il 1880, le prime scuole tecniche. L’iscrizione a queste scuole però – sebbene non vietata espressamente per legge – era di fatto impedita alle ragazze brindisine. Mescolare maschi e femmine nelle stesse aule era ritenuto infatti inopportuno e pericoloso. La destinazione naturale per le ragazze che volevano proseguire gli studi era la scuola normale femminile che preparava a diventare maestra, lavoro considerato adatto alla donna perchè coincidente con la sua missione educativa. La scuola normale più vicina era però a Lecce per cui enorme era il disagio che le ragazze dovevano affrontare per proseguire gli studi. Anche la chiusa e tradizionalista società brindisina col tempo dovette accettare il cambiamento e nel 1908 ben tre “signorine” superarono gli esami del ginnasio cittadino. Non sappiamo però se queste ragazze avessero frequentato la scuola o si fossero presentate agli esami da privatiste come era diffuso in quel periodo nelle rare famiglie della piccola e media borghesia brindisina.

Nella foto del 1918 una classe del convitto a Lecce dove si studiava da maestra.

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1918 – Proprietà M. Galasso

All’inizio del ‘900 quindi le ragazze che a Brindisi proseguivano gli studi fino alla laurea erano una assolutà rarità. Suscita per questo molto stupore il caso delle tre sorelle Roncella, figlie di Pietro, segretario comunale di Brindisi, laureatesi tutte nel corso del 1907 presso l’Università di Roma; è significativo come il giornale locale Il Faro commenti la notizia, sottolineando l’esempio di “perseveranza e di sacrificio” delle ragazze, invece che la loro intelligente capacità di studio.

Questa la foto di Magda Roncella, nata a Brindisi nel 1882,  che si laurea in Lettere a Roma con una tesi in Letteratura italiana nel 1907. Sua sorella Rosy (1885) si laurea in Lettere a Roma con una tesi di Storia nel 1907. Anche la sorella Giorgina si laurea nel 1907, sempre a Roma, in lingua francese.

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(Brindisi 1882 – Padova 1939)

Nata in una agiata famiglia, il padre è segretario del Comune di Brindisi, Magda è, insieme alle sorelle Gina e Rosy, tra le prime donne laureate della città e del circondario brindisino. Consegue la laurea in Lettere a Roma con una tesi di Letteratura italiana nel 1905. Inizia la carriera di insegnante nella Scuola Normale femminile di Lecce, quindi si trasferisce a Padova dove ricoprirà l´incarico di Direttrice di un Istituto professionale. Pubblica con relativa continuità dal 1907 al 1934. La sua produzione comprende un saggio di critica letteraria, una raccolta di novelle, un romanzo e due testi teatrali destinati agli allievi della scuola superiore.

La giovinezza e l’amore

Nelle famiglie più agiate le ragazze, tranne le pochissime eccezioni che abbiamo visto,  concludevano gli studi intorno ai 12 – 14 anni. Dai 16 anni in poi diventavano “ragazze da marito” e cominciava l’attesa del matrimonio che doveva essere contratto presto, in quanto le signorine di età superiore ai 25 anni erano già definite “zitelle” e destinate ad un grigio futuro.

Le giovanette trascorrevano la loro giornata in casa tra piccole faccende domestiche, il ricamo di qualche capo del corredo, la lettura di operette  morali a loro dedicate.

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Ritratto di adolescente in abito da passeggio. Proprietà E. Musciacco – 1912 – Brindisi

I manuali di comportamento costituivano le loro letture privilegiate, insieme ai vademecum sui doveri della giovane sposa. In questi testi si rappresentava il sentimento amoroso come qualcosa di sublime e di incantato, a cui la fanciulla doveva avvicinarsi, prima con modestia e pudore e poi alimentare, dopo il matrimonio, con sottomessa comprensione.

Se l’incontro con “l’anima gemella” avveniva, vi era, prima del fidanzamento ufficiale, un periodo di corteggiamento nascosto, in cui la comunicazione tra fidanzati  era affidata soprattutto alle lettere segrete o cifrate recapitate nei modi più strani. In realtà era difficile sfuggire al controllo delle famiglie, dal momento che a  Brindisi, chiusa e tradizionalista città di provincia, le occasioni di contatti sociali erano molto limitate: e l’occasione per incontrare un possibile marito si limitava alle feste in casa di parenti ed amici in occasione di battesimi e matrimoni, la messa domenicale, la passeggiata in compagnia di familiari o persone di fiducia.

In realtà quasi sempre lo sposo veniva scelto dalla famiglia e le ragazze accettavano questa decisione in quanto il matrimonio rappresentava un miglioramento della propria condizione e l’acquisizione di autonomia e rilevanza sociale.

Solo verso la fine del secolo, quando le condizioni economiche della città cominciarono a cambiare per un aumento degli scambi commerciali e per l’immigrazione di imprenditori del Nord, anche i comportamenti sociali mutarono. Si crearono così nuove occasioni di mondanità, tanto che la presenza di “vezzose signorine” viene registrata anche dai giornali nelle cronache di feste presso circoli, serate musicali e di beneficenza e nei veglioni di carnevale.

Nella foto una pagina del diario di Ettore Musciacco in cui annota i suoi pensieri dopo il fidanzamento con Lidia Monticelli. Era domenica 19 giugno del 1898:
“Fui accettato? Sono il fidanzato di Livia! Fine dunque alle ciarle, alle invidie maligne. Ora siamo in regola entrambi! Il nostro patto è giurato. Il nostro voto è scritto nel cuore: amarci sempre, volerci sempre. Quale Santo destino avvicinò i nostri spiriti, creati apposta per intendersi?”
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La “scinduta”
Le giovani delle classi più povere che non disponevano di una dote consistente sapevano bene che dovevano conservare intatta la loro verginità e le altre “virtù” per essere matrimoniabili.  la “scinduta”, ovvero la fuga d’amore dei due fidanzati, era sempre moralmente condannata e gettava nello scompiglio le famiglie, desiderose di sanare al più presto questa situazione irregolare, anche se spesso la “scinduta”, risolta da un frettoloso matrimonio riparatore, sollevava le famiglie più povere dalle spese della dote e dei dispendiosi festeggiamenti e annullava le tradizionali precedenze tra i figli. In altri casi gli innamorati ricorrevano alla fuga per piegare la volontà dei genitori contrari alle loro scelte.

Infine, non era raro che la “scinduta” fosse un vero rapimento, che si concludeva con la violenza sessuale anche in danno di una minorenne. Il matrimonio riparatore salvava il seduttore da sanzioni penali, mentre non si teneva in alcun conto la volontà della ragazza, costretta a sposare il suo violentatore pur di salvare “l’onore”.

Importante nella ricostruzione storica una sentenza del 15 ottobre 1915 a carico di Nicola Ialario, di anni 36, imputato di ratto consensuale della minorenne Concetta Galasso. Salvatore Galasso, padre della minore, aveva presentato denuncia contro Nicola Ialario, ma aveva poi accolto nella sua casa i giovani, poichè il rapitore aveva dichiarato di voler sposare la ragazza. Il pretore assolve l’imputato perchè tra le parti vi è stata la riconciliazione. (ASB, PB, Processi penali, a.1900, fasc.230)

Foto Fondazione Terra d'Otranto

Foto Fondazione Terra d’Otranto

 
La dote e il corredo
La dote, elemento fondamentale del matrimonio inteso come contratto, fu un istituto molto radicato nel costume e nelle consuetudini italiane per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento. Fu di fatto abolita solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ne ha espressamente vietato l’impiego. Il codice civile del 1865 ne dava questa definizione
Art 1388 “…consiste in quei beni che la moglie ed altri per essa apporta espressamente a questo titolo al marito per sostenere i pesi del matrimonio”
La dote quindi doveva servire “per sostenere i pesi del matrimonio” e non diveniva affatto di proprietà del marito anzi, in caso di scioglimento del matrimonio, doveva essere restituita alla moglie o ai suoi eredi. Il marito aveva il diritto di amministrarla e di goderne i frutti.
Nelle “tavole nuziali” stipulate a Brindisi fra il 1860 e il 1914 i beni dotali erano di solito cedibili o vendibili con l’obbligo di reimpiegare la somma ricavata nell’acquisto di altri beni che diventavano dotali. Il futuro sposo garantiva l’eventuale restituzione della dote con l’accensione di una ipoteca su un immobile di sua proprietà, di cui in alcuni casi diveniva proprietario nel momento stesso della stipula dei patti nuziali, per donazione da parte della sua famiglia. Tutto ciò ovviamente nelle tavole nuziali tra promessi delle famiglie più abbienti. Solo dal 1890 sono frequenti anche protocolli stipulati tra sposi della piccola borghesia urbana e rurale in cui non è raro trovare portato in dote dalla sposa anche un “traino”, con o senza cavallo o asino trainante.

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Tavole nuziali tra Maria Michela Balsamo di Federico, di Brindisi e Tommaso Leonetti fu Oronzo, di Andria,

tutti possidenti ANDL, Brindisi, not. Guido Foscarini, a.1912, prot. 281/7-8, cc, 148r-154v

Parte integrante della dote era il corredo della sposa, talvolta marginale rispetto all’apporto dotale complessivo, ma comunque sempre presente nel contratto matrimoniale. Era del resto l’elemento della dote più legato alla donna e al suo rapporto con l’ambiente domestico: un corredo importante e ben fatto testimoniava il prestigio della famiglia e l’abilità della sposa. L’apprezzo del corredo era un momento importante del contratto matrimoniale in quanto il valore pattuito sarebbe stato vincolante nel caso di restituzione alla sposa.

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Catalogo illustrato “primavera – estate” della ditta di vendite per corrispondenza

“E.& A. Mele & C.” di Napoli. Collezione C. Suma, Latiano

I maritaggi

I “maritaggi” erano istituti che avevano lo scopo di fornire i mezzi finanziari alle donne bisognose che dovevano sposarsi e non disponevano di una dote propria. Molto spesso venivano istituiti per disposizioni testamentaria da parte di chi moriva senza eredi e voleva acquistarsi particolari benemerenze.

Un esempio a Brindisi lo dobbiamo al testamento del 28 marzo 1864 di Chiara Taliento che, morendo nubile, volle nominare erede universale del suo cospicuo patrimonio la locale Congregazione di Carità con l’obbligo di formare ogni anno dalle rendite dei suoi beni dei maritaggi in favore delle “zitelle” orfane e povere della città, Il sorteggio dei maritaggi avveniva il 9 novembre, festa di S. Teodoro, patrono della città, nella chiesa Cattedrale alla presenza dell’Arcivescovo e del Capitolo. Venivano usate due urne, in una erano inseriti i biglietti con i nomi delle “zitelle”, nell’altra invece altrettanti biglietti, alcuni col nome di S. Teodoro, altri bianchi. Il maritaggio veniva assegnato a quell’orfana il cui nome era estratto insieme a quello di S. Teodoro.

Altro maritaggio con lo stesso fine di maritare fanciulle povere e sempre in favore della Congregazione di Carità fu disposto dalla possidente brindisina Cosima Campi, con testamento del 23 giugno 1886. Ma anche la Deputazione Provinciale attribuiva annualmente, sempre attraverso sorteggio, dei maritaggi a donne in età da marito sprovviste di dote, ma di provata moralità.

Questa consuetudine prosegui per molti anni a conferma che per una donna la mancanza di una dote, sia pur modestissima, era ancora considerata impedimento al matrimonio.

L’istituto dei  maritaggi fu abolito il 13 giugno 1915 n. 873 con un decreto che destinava il reddito che li sosteneva all’assistenza all’infanzia e successivamente agli orfani di guerra.

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10 novembre 1899 – Certificato di avvenuto sorteggio di “maritaggio” del legato Chiara Taliento in favore di Carmela Corvino,

rilasciato dalla Congregazione di carità. ASB, CCb, cat. IX- 1, b.343, fasc. 3

Le liete nozze
A Brindisi, nell’ambito delle famiglie borghesi, le “”liete nozze” (sia il rito civile che religioso), venivano celebrate nella casa della sposa, di solito nel pomeriggio; a volte il rito religioso avveniva nella cappella privata del palazzo Arcivescovile. Il ricevimento si teneva nella nuova casa degli sposi, riccamente addobbata, dove venivano serviti gelati, dolci, bibite e i tradizionali confetti ai numerosi parenti e amici invitati, che potevano ammirare i regali e ascoltare la musica. Al termine del rinfresco gli sposi venivano accompagnati alla stazione e partivano per il viaggio di nozze, la cui meta era di solito Napoli, ma anche Bari, Roma e Venezia.
La giovane sposa cominciava la sua vita matrimoniale con la consapevolezza di aver guadagnato in sicurezza e prestigio sociale, ma di dovere ora assumersi completamente quei compiti per i quali si era preparata tutta la vita. Il modello al quale ispirarsi era lo stereotipo dell’ “angelo del focolare”, la donna che attende “con intelletto d’amore” al suo dovere di sposa e di madre:
“Tutto spira benessere, i bambini sani e puliti, educati e gentili; il marito soddisfatto e felice; tutto è ordinato, semplice, regnando sovrana la pace domestica…”
Quanto costasse tendere a quell’ideale, in fatiche, rinunce, pazienza, sottomissione, i documenti non lo dicono. Il matrimonio, nonostante le grandi aspettative che le donne vi riponevano, si rivelava per alcuni versi un peggioramento della loro condizione. Nell’organizzazione convenzionale (e sancita dalla legge) della famiglia borghese – modello al quale si rifacevano le altre classi sociali – la moglie aveva ben poca voce in capitolo e, paradossalmente, meno autonomia della nubile emancipata o della vedova senza figli.
Infatti per ogni atto da lei compiuto era necessaria l'”autorizzazione”, prevista dall’art. 134 del codice civile. La gestione dell’economia familiare non le competeva, anzi il marito amministrava non solo i beni dotali, ma anche quelli personali della moglie. La madre aveva tutto il peso dell’allevamento e dell’educazione dei figli, ma non aveva su di esse alcun potere legale. La patria potestà era esercitata dal padre e poteva continuare oltre la sua stessa vita tramite le disposizioni testamentarie. Spettava al consiglio di famiglia, composto solamente da uomini, la decisione sull’amministrazione dei beni e l’educazione dei figli minori qualora la vedova si risposasse.
Rimanendo nell’ambito della “legge del più forte”, marito e moglie non erano uguali nemmeno quando si tradivano: l’adulterio femminile, che metteva in pericolo la certezza della discendenza e faceva crollare l’immagine di moglie e di madre, era severamente punito dal codice penale, mentre il marito doveva arrivare al provato concubinato per avere analoga punizione.

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Abiti da sposa – Museo Ribezzi Petrosillo, Latiano

 La prostituzione a Brindisi
Nell’ambito di questa ricerca sulla realtà femminile a Brindisi dall’800 ai giorni nostri, ci sembrava giusto porre l’attenzione anche sul fenomeno della prostituzione a Brindisi in quegli anni. Le fonti disponibili però, sebbene a volte spacciate per indagini storiche, sono state decisamente deludenti, spesso pervase da quello spirito goliardico maschilista che in genere accompagna la trattazione di questi argomenti anche nelle pubblicazioni più considerate. Ci sarebbe piaciuto mettere l’accento sulle “persone” che praticavano questo mestiere, sulle loro motivazioni, sulle loro sofferenze,  evitando magari luoghi, nomi, prezzi delle prestazioni e tutti gli aneddoti maliziosi che si possono trovare a decine sul web.
Prima di tutto una parola su quei clienti di “primo pelo” che venivano condotti in quei bordelli dai loro stessi parenti perchè perdessero la verginità allo scoccare dei 18 anni o prima. Ovunque è descritto il loro imbarazzo, ovunque si raccontano gli sfottò, la derisione cui venivano sottoposti per la loro inesperienza. Anche gli uomini, diciamola tutta, si sono per loro fortuna emancipati da questi riti di iniziazione, anche per loro la strada percorsa a Brindisi come altrove  è stata tanta.

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Nella foto Olympia di Manet, un quadro che fece scandalo quando fu esposto al Salon del 1865,

uno scandalo tale che fu necessario rimuoverlo.

 Già nell’ottocento Brindisi pullulava di bordelli, forse per il suo porto, forse per i tanti viaggiatori e, nonostante le leggi che venivano continuamente emanate sulla igiene che si doveva seguire, le condizioni sanitarie – come si evince da numerosi documenti – erano pessime. Oltre che dalle inevitabili malattie veneree Brindisi era infestata dalla meningite, dal vaiolo, dalla difterite e dalle enterocoliti. Ma la nostra città, proprio per l’alto numero di prostitute, deteneva un altro primato: nel 1875 Brindisi contava tre ostetriche a fronte dei suoi 15.000 abitanti, ma era risaputo che altre quattro abusive si dedicassero prevalentemente alla pratica degli aborti. I “disgraziatissimi figli”delle prostitute costituivano per loro e per tutta la società brindisina un problema grave. In svariate denunce presentate in Commissariato tra fine ottocento e i primi anni del novecento, si legge che “…s’ignora quasi sempre la sorte della prole troppo disgraziata che nasca dalle prostitute e dalle concubine”. In margine alle stesse denunce il commento annotato dal funzionario di polizia è agghiacciante: “… una morte violenta e segreta è il mezzo cui si rivolgono queste sciaguratissime madri per liberarsi del “peso” della loro dissolutezza, calpestando così le leggi di Dio e della natura con una atrocità la più colpevole, la più rivoltante”. La nota continua con la decisione del Sindaco di istituire un apposito registro permanente per annotarvi la data di nascita, il nome, il sesso e l’ipotetico padre (ove conosciuto) di questi neonati. Si lasciava poi al buon cuore dei sindaci il provvedere a questi bambini, consentendo visite ogni 15 giorni alle rispettive madri. Secondo le disposizioni dell’epoca queste attenzioni avrebbero procurato ai sindaci un titolo meritorio verso l’Altissimo e verso gli uomini, ma appare chiaro che l’intento fosse quello di evitare che le prostitute finissero in carcere, luoghi da cui era bandita ogni norma di decoro civile e di umanità.
E non si pensi che quelle che oggi chiamiamo “ragazze-madri” se la passassero meglio delle prostitute, ma quella è un’altra storia…
Fonte
I testi e i documenti, relativi alla condizione femminile, sono estratti dal catalogo della mostra “Figlie, spose, madri: testimonianze di vita quotidiana. Brindisi 1860 – 1915” a cura dell’Archivio di Stato e del Soroptimist Club di Brindisi. La mostra di documenti e oggetti, in particolare capi di corredo, fu allestita nelle sale dell’Archivio di Stato nel marzo 1991, mentre il catalogo fu finanziato dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

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