La chiesetta brindisina del Cristo dei Domenicani

Intervento di Giuseppe Marella 

La chiesetta brindisina del Cristo dei Domenicani ( QUI l’articolo di Brundarte) – o del Santissimo Crocifisso, come sempre viene citata dalla venerata effigie lignea all’interno – rappresenta una delle più straordinarie testimonianze artistiche del Duecento pugliese. Questo grazie ai suoi caratteri formali, che oltre a differenziarla nel pur ricco panorama locale, risultano assolutamente innovativi anche nello specifico dell’edilizia domenicana cui pertiene.

Crocifisso ligneo del XIV secolo

Dell’insediamento domenicano originario, risalente all’età federiciana, rimane la sola chiesa. Il convento era a quel tempo inserito nella grande Provincia Romana, la circoscrizione dell’Ordine in Italia meridionale, ridefinita nel 1294 col titolo di Provincia del Regno; dal 1530 passò poi nella più ridotta Provincia di San Tommaso d’Aquino, che riuniva solo le case pugliesi. A seguito delle leggi eversive napoleoniche del 1807-1809, che soppressero tutti i conventi domenicani dell’Italia meridionale – 250 circa –, anche l’antica comunità brindisina fu espulsa dalla sua dimora e si disperse. Essa non rientrò nel novero delle cinque sedi che Ferdinando I decise di ricostituire nel 1819, forse per le cattive condizioni finanziarie che si trascinavano da tempo.

Dopo essere stato adibito a caserma militare (nel 1813) e ad altri usi pubblici, il complesso domenicano fu ceduto nel 1856 ai francescani, quindi, nel dicembre 1867, dato in concessione al Comune di Brindisi perché riaprisse la chiesa al culto. Negli anni seguenti l’autorità cittadina si mostrò indifferente ai problemi di dissesto che andavano accentuandosi, e valsero a poco gli appelli del Ministero della Pubblica Istruzione al Prefetto di Terra D’Otranto; se la chiesa fu salvata dal dissesto statico grazie al contributo finanziario di una Confraternita, l’incuria ebbe invece il sopravvento sulle strutture del convento, che, risultano in gran parte crollate alla fine dell’Ottocento. Più tardi, a partire dal 1927, molte delle antiche fondazioni furono recuperate nei costruendi Istituto Provinciale di Igiene e Istituto Tecnico Marconi.

Immagini della vecchia Chiesa di Cristo (o del Crocefisso) – Fototeca Briamo per gentil conc. della Biblioteca Arc. A. De Leo – Brindisi

Immagini della vecchia Chiesa di Cristo (o del Crocefisso) – Fototeca Briamo per gentil conc. della Biblioteca Arc. A. De Leo – Brindisi

Immagine del vecchio Convento – Fototeca Briamo per gentil conc. della Biblioteca Arc. A. De Leo – Brindisi

La situazione attuale vede l’ex Istituto Tecnico Marconi che ha preso il posto del Convento dei Domenicani, addossato alla Chiesa del Cristo purtroppo macchiata dalle mani di vandali irresponsabili.

Immagine dell’ex I.T.C. Marconi che aveva preso il posto del Convento dei Domenicani

La fondazione e il contesto cittadino

L’edificio sorge nel centro storico sul promontorio di Levante, a ridosso di Porta Lecce e della via pubblica che da lì si dipana. Una epigrafe sgraffita presente su un concio di facciata, a sinistra del portale, è stata spesso sciolta secondo una formula in grado di restituire l’anno e le circostanze della sua edificazione: 1232 [o 1237?] A(NNO) FU(N)D(ATIO) CO(NVE)NTUS.

Chiesa del Cristo

Concio murario con l’anno di fondazione

Il primo documento pervenuto risale al 1238, anno in cui due domenicani, i frati Eustazio e Burrello, probabilmente priore e vicepriore di quel tempo, presenziano ad una ricomposizione fra la Mensa arcivescovile ed il Capitolo del Duomo di Brindisi.

La casa brindisina fu dunque una delle prime dell’Ordine in tutta l’Italia meridionale, pressoché contemporanea, in Puglia, alle comunità di Trani e Lucera; essa manifesta dunque l’interesse precoce dei frati predicatori per la regione adriatica, e ribadisce la loro forza espansiva già a ridosso della morte del loro ispiratore, Domenico di Guzmán (†1221).

In uno studio denso e ricco di stimoli sulla città in età sveva, Giacomo Carito ha rilevato come la scelta del sito fu probabilmente sollecitata dagli interventi di riqualificazione urbanistica promossi in città tra il III e il IV decennio del Duecento, volti a recuperare tutto il promontorio di Ponente e ad inglobarlo all’interno di nuova e più ampia cinta muraria.Nella pianificazione degli amministratori svevi, imperniata sulla nuova fortezza federiciana presso la rada di Ponente, il nucleo domenicano diveniva un potenziale polo di aggregazione demografica assieme al coevo monastero femminile della SS. Trinità – poi di Santa Lucia -, quest’ultimo sorto verso il 1231 sullo stesso pianoro circa 300 metri più a Nord. Tali progetti, come sappiamo, vennero sospesi a causa delle traversie intercorse nel frattempo; per la loro riattivazione si dovette attendere la fine del Quattrocento, quando gli Aragonesi – dal 1475 – e poi gli Spagnoli completarono le mura riuscendo finalmente ad incorporare l’area dell’antico municipium romanum.

L’insediamento brindisino si colloca in un periodo di distensione e di fruttuosa collaborazione tra Federico II e gli Ordini mendicanti. Anche in seguito, nella fase di più acceso contrasto col papato, l’atteggiamento del sovrano nei confronti dei domenicani si mantenne sempre misurato, ben differente rispetto a quello che riservò ad esempio ai francescani, colpevoli di essersi schierati più apertamente con la fazione papale.

L’architettura

All’esterno il monumento propone una tersa stereometria (m 12,20 x 33,12 circa alla base, abside esclusa), impostata su una zoccolatura rettangolare e coronata in alto da un doppio spiovente. Come accade in altri episodi pugliesi del Duecento, la facciata giustappone inserti dichiaratamente gotici, tra i quali spicca il grandioso rosone, a lemmi desunti dalla tradizione romanica locale, quali il profilo a capanna e la fuga di archetti ciechi parallela alle falde. Di antico sapore mediterraneo ed ampiamente sperimentata negli edifici normanni della città – vedi la chiesa di San Benedetto e la cattedrale – è anche la nota bicroma, che nel prospetto della chiesa del Cristo viene declinata sovrapponendo filari isometrici di candido calcare a quelli di carparo dorato.

Chiesa di S. Benedetto – Serie di archetti bicromi

L’attuale terminazione ad abside unica semicircolare è il frutto di rimaneggiamenti occorsi tra fine ‘400 e inizi ‘500, quando, per dare adito ai bastioni delle nuove mura, furono rimossi il transetto e il capocroce delle origini; la primitiva conformazione è intuibile dall’arco trionfale bicromo dell’interno, coerente ad una zona presbiteriale ben più ampia, e all’esterno, dagli scarti murari corrispondenti e dalle tracce di una fondazione relativa con ogni probabilità al braccio destro del transetto.

All’interno

Arco trionfale

All’esterno

Segni della rimozione del transetto

Chiusura absidale addossata all’arco trionfale

Segni della rimozione del transetto

Parte posteriore della chiesa vista da via Bettolo

Si sa che le strutture conventuali, oggi scomparse, vennero ampliate nel 1301, quando Carlo II d’Angi, per ricambiare il dono di una copia dello Speculum Historiae di Vincenzo di Bouveais, elargì alla comunità diversi privilegi proprio a quello scopo.

All’interno, l’aula unica coperta da tetto ligneo a capriate riverbera sostanzialmente il prospetto esterno. Attualmente sopravvivono solo due dei quattro altari barocchi addossati un tempo alle pareti laterali, l’altare del Sacro Cuore di Gesù – già di San Domenico – sulla destra e quello della Madonna del Rosario a sinistra. Gli altri due apparati, l’altare di San Tommaso d’Aquino e l’altare di San Vincenzo Ferreri, assieme all’altare maggiore settecentesco furono incautamente rimossi durante i restauri condotti tra il 1947 e il 1949 dal Soprintendente regionale Franco Schettini; stessa sorte subì un diaframma murario a tre luci posto all’ingresso, sempre di età moderna, che dotava la chiesa di un piccolo pronao differente dall’attuale.

Tetto a capriate

Interno ad aula unica

Nel periodo in cui sorse la chiesa brindisina, gli Ordini mendicanti, ancora in fase di assestamento e pressati da altre urgenze, non avevano remore a servirsi di edifici di varia conformazione; nei primi tempi, anzi, essi preferivano occupare chiese preesistenti, alle quali successivamente affiancavano un chiostro ed altri edifici conventuali secondo una organizzazione degli spazi desunta dal mondo cistercense. Contemporaneamente, francescani e domenicani andavano dotandosi di una normativa edilizia molto accurata, tesa ad adeguare i loro edifici agli ideali di povertà e austerità che li contrassegnavano. In ragione di ciò, è stato finalmente possibile rintracciare un comune denominatore, quel fil rouge dell’edilizia mendicante conosciuto come “spazio dell’umiltà”.

L’obiettivo ideale si riverbera in prima battuta nella sobria prassi decorativa degli edifici mendicanti. Talvolta, ha modo di esprimersi anche nella sintassi architettonica: in questo ambito, dove il quadro si mostra ricco di soluzioni, è la tipologia ad aula unica con tetto ligneo a vista, la cosiddetta “chiesa-fienile” o “a capannone”, quella capace di veicolare compiutamente la poetica mendicante, oltre che le istanze funzionali dei due Ordini.

L’icnografia, peraltro, risulta particolarmente adatta alla predicazione di massa perseguita dai domenicani e dai francescani, poiché, come ha argutamente suggerito Corrado Bozzoni, permetteva a tutti fedeli che convenivano all’interno la possibilità di seguire il predicatore senza ostacoli visivi come i pilastri e le colonne.

La scultura

Il cantiere del Cristo dei domenicani si protrasse per diverso tempo, alternando, come accadeva di norma, sospensioni più o meno prolungate a fasi di riattivazione, a seconda delle condizioni finanziarie del momento.

Nei decenni successivi si mise mano anche all’esuberante rosone della facciata, una chiara concessione alla poetica gotica della luce e alle inclinazioni decorative dei committenti. Il grande elemento trionfale esibisce 16 raggi, completamente ricostruiti nei restauri di metà Novecento, e tre fasi concentriche scolpite con motivi fitomorfi: nel giro più interno si susseguono frappanti festoni, testine umane e piccoli esseri zoomorfi addossati, per lo più mostri desunti dai bestiari e memori della grande lezione figurativa romanica; nei due anelli più esterni domina invece l’elemento vegetale, un continuum di pale d’acanto fittamente incise capace di densi effetti chiaroscurali.

Ad arricchire l’apparato sovvengono ancora, secondo radicati schemi romanici, un archivolto di coronamento e due snelle colonne laterali, impostate sulla cornice marcapiano e sovrastate da due capitelli scolpiti e da due aquile.

Nella grande rosa si concentra dunque gran parte della scultura architettonica dell’edificio. Nella zona che si impone a forza come il luogo visivo preminente, i committenti domenicani hanno voluto dispiegare un discorso allegorico chiaramente incentrato sulla missione antieretica dell’Ordine; essi hanno voluto, forse, anche riverire velatamente il loro antico sostenitore, l’imperatore svevo, che aveva da poco concluso la sua vicenda terrena.

Si riconosce tutto il consueto repertorio dell’immaginario medievale: vi sono rapaci dai rostri enormi, rettili dalle fauci spalancate dotati di denti aguzzi, quadrupedi e ibridi raccapriccianti. Tutti esibiscono un atteggiamento aggressivo: sono esseri al servizio del Male, sempre pronti a traviare nel vizio le anime dei fedeli, ad alimentarne le ansie e le paure.

Le Scritture, gli esegeti e l’arte medievale non cessano di vedere nei rettili un’emanazione diretta di Satana, e la sua sembianza terrena prediletta; la fantasia degli artisti brindisini li vuole nelle forme di lucertoloni famelici, talora intenti ad annodare le code attorno ad un asse centrale, altre volte dotati di ali a ricordare dei piccoli draghi. Raffigurato più volte è il basilisco, una tormentata ibridazione col corpo di un gallo e la coda squamata di un serpe già ricordata da Plinio. I bestiari medievali lo vogliono metafora di volta in volta del diavolo, del peccato, del cristiano pervertito e dell’eresia, e in grado di uccidere un uomo col veleno o addirittura col solo sguardo. Ancora più drammatico è l’ibrido dal volto umano che li fronteggia, il discendente di Adamo giunto dalle estreme propaggini del mondo per tormentare, o per simboleggiare, col suo corpo animale peccaminoso, la degenerazione dell’uomo rispetto allo stato di perfezione donato da Dio al Progenitore.

Perfettamente coerenti al contesto narrativo sono le due aquile dei capitelli laterali, formidabili guardiane della chiesa. Le aquile della Chiesa del Cristo sono rappresentate nell’atto di artigliare una preda, quasi sicuramente – da quanto si intuisce nonostante le abrasioni –, una lepre. Si tratterebbe dunque di un tema iconografico di antichissima origine centroasiatica, la “leporaria”, già ricordata da Plinio il Vecchio: un’immagine che rinvia anch’essa all’ineluttabile vittoria divina sulle forze diaboliche, in particolare sull’eresia.

La grande rosa risulta ancor più sorprendente se rapportata alla sobrietà decorativa tipica degli edifici mendicanti. È difficile dire se fosse prevista nel progetto iniziale oppure sia stata decisa in corso d’opera, ad imitazione di ciò che nel frattempo andava apparendo nelle prestigiose cattedrali della regione (come a Bari, Trani, Troia, Bitonto e Ruvo). Le parti decorative della facciata furono certamente cominciate diversi anni dopo la fondazione, quando la struttura architettonica era già completata o a buon punto.

Sarebbe scorretto inquadrare i rilievi della facciata brindisina nel novero della scultura propriamente “federiciana”, una definizione che attiene piuttosto alla produzione ufficiale di corte, quella direttamente influenzata dalle predilezioni estetiche del sovrano e in grado di veicolarne le intenzioni rappresentative. Essi si allineano piuttosto con l’indirizzo alternativo, più tradizionalista, che nella prima metà del Duecento ebbe modo di svolgersi parallelamente in tutto il regno meridionale: un filone attardato sul retaggio romanico, che, seppur capace di dialogare col primo, rifugge dalla debordante vitalità delle nuove forme gotiche ed indugia piuttosto su fraseggi di grande effetto decorativo, ampiamente sperimentati nel secolo precedente. Questa seconda tendenza si manifesta in Puglia soprattutto negli edifici religiosi, tanto in quelli fondati in età normanna che continuano ad essere abbelliti in tutto il Duecento quanto in quelli costruiti ex-novo come la chiesa del Cristo a Brindisi.

Da tempo, Maria Stella Calò Mariani ha ascritto il rosone al catalogo di una bottega ben nota, il cui esordio in Puglia è riconosciuto nei portali e nei capitelli della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo a Lecce, il celebre sepolcreto eretto da Tancredi (ante 1180). Tra le sue sigle stilistiche vi è una decisa vocazione ornamentale e antiplastica, associata ad un intaglio inconfondibile, fitto e profondo: cifre che tradiscono l’utilizzo di modelli mobili islamici in avorio e stucco, ed una diretta provenienza delle maestranze dalla Terrasanta crociata. I densi ricetti realizzano a Brindisi una trama floreale che palpita di intense vibrazioni chiaroscurali, in un raffinato gioco di contrappunti con la bicromia del paramento. Qui, come accade nella fascia esterna e nell’archivolto del portale occidentale di Lecce, nel nastro più esterno le foglie d’acanto s’incurvano con più forte aggetto, secondo modi desunti dall’arte suntuaria siriaca; sull’archivolto di coronamento, poi, la medesima frappante vegetazione si arricchisce di una sequela di pomi penduli, che richiamano in modo originale i crochets di matrice cistercense che si rintracciano in tanti capitelli coevi.

Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo in Lecce

Nel corso del Duecento e ancora di tutto il Trecento, le generazioni di scalpellini che si succedettero, vitalizzate da un continuo apporto dall’Oriente, replicarono ripetutamente in Puglia e Basilicata gli orientamenti di fondo e gli stilemi dei magistri di Tancredi. La triangolazione si completa in virtù delle palesi attinenze tra Brindisi e la stessa Cerrate: nell’abbazia leccese, ancora in un capitello del portico, un monaco appare dilaniato dai rostri di due grandi volatili e dalle fauci di un animale mostruoso: un preciso ammonimento contro il peccato, che trova riscontro, anche nelle anatomie rigide ed essenziali delle figure, nel capitello destro della facciata domenicana.

Capitello nel chiostro dell’abbazia di S. Maria a Cerrate

Lo “spazio dell’umiltà” è ripreso ancora nello straordinario gioiello di Santa Maria del Casale, il cui transetto orientale riflette forse, un sessantennio dopo, l’originaria soluzione dei domenicani. Ulteriori omaggi appaiono sulla facciata, dove vengono riproposti in termini più monumentali il profilo a capanna, la fuga di archetti ciechi e soprattutto le suggestioni cromatiche che proiettano la città adriatica, ancora una volta, verso quell’Oriente che appare sempre più favoloso.

Chiesa di S. Maria del Casale

 

Il presente articolo è un abstract di:
G. Marella, Architettura e scultura nella Brindisi federiciana: la chiesa del Cristo dei Domenicani, in Federico II. Le nozze di Oriente e Occidente, L’età federiciana in terra di Brindisi, Atti del convegno di Studi (Brindisi, 8-9-14 novembre 2013), a cura di G. Marella e G. Carito, [Società di Storia Patria per la Puglia – sez. Brindisi, Convegni, V], Pubblidea Edizioni, Brindisi 2015, pp. 19-53.
Si ringrazia l’editore per la gentile concessione.

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Note:
L’Ordine cistercense (in latino Ordo cisterciensis, sigla O.Cist.) è un ordine monastico di diritto pontificio. Ebbe origine dall’abbazia di Cîteaux (in latino Cistercium), in Borgogna, fondata da Roberto di Molesmes nel 1098. Sorse all’interno della congregazione cluniacense, dal desiderio di maggiore austerità di alcuni monaci e da quello di ritornare alla stretta osservanza della regola di san Benedetto e al lavoro manuale.
Icnografia = planimetria.
Frappanti= sorprendenti.
Ricetto = dal latino receptus ( = rifugio, ricovero); nella terminologia storico-artistica ricorre col significato di spazio defilato, lontano dalla luce e colmo di ombreggiature.
Crochet= Il capitello dei secoli XII e XIII è il cosiddetto capitello ad uncino o a crochet, una delle espressioni più tipiche fra i capitelli gotici.
Il crochet od uncino, sì può considerare come una trasformazione della voluta ed è essenzialmente costituito da una foglia del tipo di quelle grasse che si assottiglia gradatamente verso l’estremità, portandosi in alto a formare sotto l’abaco, in corrispondenza degli angoli, come una massetta chiusa e raccolta.

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