Il Museo archeologoco “F. Ribezzo” racconta

Eravamo anche noi al Museo Archeologico Ribezzo di Brindisi la mattina dell’11 gennaio 2020 per l’apertura straordinaria voluta dalla direzione  per consentire alla cittadinanza di ammirare i Bronzi di Punta del Serrone, appena ritornati in sede dopo il temporaneo trasferimento a Lecce.  E’ stata per noi l’occasione per constatare ancora una volta quanto ricco di preziosi reperti e di assolute rarità sia il nostro museo, rafforzando la nostra volontà di far conoscere ad un pubblico più vasto ed eterogeneo tali tesori. Per questo motivo abbiamo deciso di curare sulle nostre pagine social l’hashtag #MuseoRibezzo_racconta, lavoro che riportiamo anche qui sul nostro sito con questo articolo in continuo aggiornamento.

Buona visita del Museo attraverso gli scatti e le ricerche di Brundarte!

Brindisi – Tomba di via Bari (1955)
Complesso di oggetti, fine VI secolo – 430 a.C.

Nel 1955 si rinvenne in via Bari, in occasione di lavori edilizi, una tomba a cassa di carparo. Nella sepoltura, al momento della scoperta, fu riconosciuto un solo individuo; l’esistenza di una seconda deposizione è tuttavia suggerita dal corredo che risulta formato, sotto l’aspetto sia tipologico che cronologico, da due distinti gruppi di oggetti.
Gli oggetti del primo gruppo comprendevano una serie di prestigiosi recipienti metallici e ceramici allusivi al consumo del vino e alla pratica dell’atletismo e accompagnavano probabilmente la deposizione di un uomo adulto di rango aristocratico. Al 440-430 a.C. si datano le ceramiche di importazione attica (..)

Tra gli altri:
1. Cratere (*) a colonnette attico a figure rosse (440-430 a.C.)lato A: corteo dionisiaco in movimento verso un altarelato B: due satiri e un giovane a colloquio

2. Skyphos (**) attico a figure rosse (440-430 a:C.).Lato A e B con atleti in atto di effettuare esercizi

3. Cista (***) cordonata di bronzo.

Produzione dell’Etruria padana. Fine VI secolo a.C.

(*) Ampio vaso usato nell’antichità classica per miscelare e servire acqua e vino nei banchetti; costituisce spesso un notevole esempio di ceramica e pittura vascolare.
(**) Lo skyphos è un tipo di vaso greco, una profonda coppa per bere con due piccole anse, solitamente orizzontali, impostate appena sotto l’orlo; il piede è basso o del tutto assente.
(***) Recipiente di forma cilindrica (di vari materiali), tipico dell’antica civiltà greca e di quelle italiche fin dall’età del ferro, per uso quotidiano o per uso rituale e come tale spesso deposto nelle tombe.

La Nascita di Venere

Della sezione antiquaria del Museo fa parte una ricca documentazione di reperti in terracotta il cui nucleo più cospicuo è costituito da statuette, prodotte a stampo, di vari soggetti, principalmente divinità maschili o femminili, eroi o guerrieri.

Si discosta dalle altre questa elegante statuetta di età ellenistica (IV sec a. C.) alta 17 cm. Rappresenta una figura femminile nuda, inginocchiata su un piccolo piedistallo tra le valve di una conchiglia. Il soggetto è interpretato come la nascita di Venere. La dea regge nella mano sinistra un fiore a cinque petali.

E’ una delle più belle terracotte tarantine.

Bambola con arti inferiori movibili

Nel 1982 si è avuta la scoperta della necropoli di via Cappuccini nella quale sono state rinvenute 278 tombe comprendenti un arco cronologico che va dal IV secolo a.C. al III d.C. Le sepolture più antiche, precedenti la fondazione della colonia romana, sono a fossa, scavate nel banco sabbioso con coperture di diverso tipo: i corredi comprendono ceramica a vernice nera, ceramica comune, terracotte figurate. Tra queste ultime ricordiamo una bambola perfettamente conservata rinvenuta in una tomba di bambina insieme ad altro materiale.

La bambola in terracotta risale alla metà del III sec. a. C. e ha arti inferiori mobili per mezzo di una sottile verga di ferro inserita attraverso fori praticati nella veste e alle estremità degli arti. Indossa una corta tunica a due balze e porta i capelli raccolti in una crocchia con una corona con foglie d’edera.

Urna cineraria in marmo

Sempre al tesoro della necropoli rinvenuta in via Cappuccini nel 1982 appartiene questa urna cineraria di età romana, in marmo, alta 50 cm.


Una norma della legislazione romana, risalente alle XII tavole della metà del V secolo a. C., vietava l’inumazione o la cremazione di qualsiasi adulto in urbe. Solo a partire dal V secolo d.C., per le trasformazioni degli assetti urbani e delle stesse condizioni di vita, il divieto di seppellire in urbe non fu più rispettato per cui le sepolture dell’ultima fase di vita della città devono aver occupato spazi dentro le mura.

L’incinerazione avveniva dando fuoco ad una catasta di legno sulla quale era stato deposto il defunto con gli oggetti che gli erano appartenuti< il rogo veniva poi spento con acqua o vino. I resti ossei venivano lasciati nello stesso luogo del rogo o venivano raccolti, spesso lavati con latte e miele e poi deposti entro contenitori di vario tipo (urne di pietra, contenitori di terracotta o vetro) e collocati in sepolcri costruiti o scavati nella terra.

Il rituale dell’incinerazione. Ricostruzione della fase del rogo (di Armanda Zingariello) – MAPRI

Il rituale dell’incinerazione. Ricostruzione della fase del banchetto funebre dopo la raccolta dei resti ossei (di Armanda Zingariello) – MAPRI

Disco zodiacale
Tra i tesori del nostro Museo ecco questo particolarissimo disco di età romana in terracotta con la rappresentazione dello zodiaco. I dischi venivano in genere usati come elementi decorativi e venivano appesi tramite corde o catenelle ai portici dei giardini oppure ai rami degli alberi nelle domus e nelle ville romane.
Possiamo ammirare al centro la volta celeste, sorretta da due atlanti, che racchiude la quadriga condotta da Eros e guidata da Mercurio; intorno simboli votivi. Ma la caratteristica che più ci attrae sono gli 11 segni dello zodiaco nella fascia esterna del nostro disco.
Le dottrine astrologiche erano giunte nel mondo latino attraverso la cultura ellenistica e, almeno inizialmente, si trattava di forme magico-divinatorie. A Roma gli astrologi erano anche e soprattutto maghi e indovini spesso al servizio di patrizi, senatori o addirittura imperatori che usavano la scienza delle stelle più per scopi personali, propagandistici e politici che non di ricerca o studio. Tale situazione faceva inorridire personalità come Catone (234-149 a.C.) che criticò con forza la mania del popolo romano di consultare gli astri per qualsiasi piccola inezia, cosa che, egli diceva, rendeva l’uomo schiavo e doveva certo aver creato tutta una serie di personaggi poco raccomandabili se nel 139 a.C. si arrivò a bandire gli astrologi da Roma. Si dovrà aspettare l’arrivo del filosofo, storico e astrologo Posidonio di Apamea (135-50 a.C.) per far sì che un’astrologia un po’ più seria e strutturata si diffondesse, dall’isola di Rodi dove aveva la sua famosa scuola, in Occidente quindi anche a Roma, un’astrologia che parlava e si basava sulla filosofia stoica, su concetti come determinismo e libero arbitrio, aprendosi quindi a dibattiti anche e soprattutto etico-filosofici.

Oscillum fittile a rilievo. I secolo a.C. Rappresentazione dello zodiaco con al centro divinità su carro

Quasi tutti gli imperatori romani avevano un proprio astrologo e, alcuni di essi, addirittura, si interessavano direttamente di astrologia, per esempio Giulio Cesare (100-44 a.C.) scrisse anche un trattato astronomico (De astris) in cui si parlava dell’influenza del Cielo sulle vicende umane e più specificamente di astrometereologia; Augusto (63 a.C. -14 d.C.) addirittura fece coniare monete con il proprio segno lunare di nascita.

Semicapitello

Semicapitello del XII sec. di pietra calcarea, di cm. 70x68x42 che proviene dalla distrutta Cattedrale. Due sfingi affrontate con cappelli a cono occupano la faccia del semicapitello ai cui angoli superiori sono due teste leonine, morbidamente modellate.

Capitelli a cestello

Capitelli a cestello del X sec. in pietra, di cm. 40x30x30 e 47x30x30, di tipo Bizantino con girali e fogliame finemente lavorati a trapano

Statuetta di Ecate trimorfa – Età imperiale
Ecate era la dea della magia e degli incroci ed era la potente signora dell’oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, la luna, i fantasmi, i morti. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia.
La rappresentazione trimorfa di Ecate rientra nella riproposizione di età ellenistica e ricalca un tipo statuario elaborato alla fine del V sec. a.C. nelle stesse botteghe attiche. Il tipo iconografico restituisce l’immagine di tre fanciulle addossate a una colonna o pilastro centrale, rese in posizione frontale, ieratica e sempre piuttosto rigida. L’abbigliamento è un tratto costante e consiste in un chitone smanicato e un peplo alto cinto in diverse varianti; variano le posizioni delle braccia e gli attributi che esibiscono, dal pomo, alla oinochoe (vaso simile alla brocca), alla melagrana; piuttosto costante è la presenza della fiaccola al lato di una figura.
Da Pausania sappiamo che la prima rappresentazione tricorpore di Hekate era stata realizzata da Alcamene per essere esposta sull’acropoli di Atene, nei pressi del tempietto di Atena Nike (430 a.C.).
Ecate era una divinità in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dei e il regno dei morti. Spesso è raffigurata con delle torce in mano, proprio per questa sua capacità di accompagnare anche i vivi nel regno dei morti (la Sibilla Cumana, a lei consacrata, traeva da Ecate la capacità di dare responsi provenienti, appunto, dagli spiriti o dagli dei).
La natura di Ecate è bi-sessuata, in quanto possiede in sé entrambi i principi della generazione, il maschile e il femminile. Per questo motivo viene definita la fonte della vita e le viene attribuito il potere vitale su tutti gli elementi.
Dea degli incantesimi, degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade. Ecate è infatti raffigurata come triplice (celeste, terrestre e marina) e il numero Tre la rappresenta. Le sue statue venivano poste negli incroci (trivi), a protezione dei viandanti . Dai romani era chiamata Trivia.
(N. Serafini, Antichi Dei oggi; G. Greco, Academia.edu; altro da siti Internet)

Epigrafi sepolcrali in lingua ebraica

Queste tre epigrafi sepolcrali in lingua ebraica custodite presso il Museo Archeologico “F. Ribezzo” testimoniano la storia della comunità ebraica a Brindisi. Furono rinvenute dall’arcidiacono Tarantini intorno al 1873 nella vigna del signor Gennaro De Laurentis, in località Tor Pisana dove gli ebrei avevano un loro cimitero. Graziano Isaia Ascoli le giudicò autentiche del IX secolo.

La prima è particolarmente interessante e risale all’832: si tratta di una stele sepolcrale in cui è ricordata una giovane donna di nome Lea, cui il dedicante augura che le siano aperti i giardini dell’Eden. Questa la traduzione di Giuseppe Castiglioni:

“Qui riposa Lea fanciulla bella. Voglia la sorte che l’anima sua sia accolta nelle terre dei viventi. Ella morì quando dalla distruzione del Sacro Tempio fino alla sua morte erano trascorsi 674 anni, e gli anni della sua vita erano 17. Dio la renda meritevole di esaltare l’anima sua con (quelle dei) giusti ed entri nella pace e riposi nel (luogo di) riposo.

Custodi dei tesori del giardino di Eden, aprite a Lea le porte del giardino di Eden, ed entri Lea nel giardino di Eden, apritele le porte del giardino di Eden: ogni delizia si abbia alla destra, ogni dolcezza si abbia alla sinistra; ciò intonerai e dirai a Lei: Questo è il mio diletto e questo è il mio compagno. Nell’anno 4596 della creazione”.

work in progress

Bibliografia:

Sciarra Benita, Musei d’Italia – MAPRI

Sciarra Benita, Brindisi e il suo Museo

Angela Marinazzo, Museo Archeologico “F. Ribezzo” di Brindisi

Nicola Vacca, Brindisi Ignotata

 

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