National Gallery di Londra – capolavori imperdibili

Dittico Wilton (circa 1395) – autore sconosciuto

Questo piccolo e prezioso altare pieghevole in legno di quercia completo della sua cornice, non molto più grande dei manoscritti miniati che ricorda, fu probabilmente commissionato dal re d’Inghilterra Riccardo II per le sue orazioni private. Lo sportello di sinistra mostra il suo ritratto inginocchiato insieme a tre santi, per lui di particolare significato, che lo presentano alla congrega celeste dipinta nello sportello di destra: re Edmondo, re Edoardo il Confessore e Giovanni Battista. Edmondo ha in mano la freccia che lo uccise nell’869 mentre Edoardo il Confessore tiene tra le dita un anello che secondo la leggenda aveva donato ad un povero pellegrino rivelatosi poi San Giovanni Battista che qui posa la mano sulla spalla del re. A destra Maria col Bambino è raffigurata tra undici angeli, tra i quali predomina il colore blu lapislazzulo delle vesti e del piumaggio delle ali, sullo sfondo di un cielo color oro e un prato con fiori delicati.

Sul retro del dittico è invece dipinto un cervo bianco, emblema di Riccardo II e della casa reale inglese. Lo stesso cervo, in piccolo, si trova sullo spillone del re con corna d’oro ornate di perle e appuntato sul petto agli angeli. Sulla parte sinistra un angelo che tiene uno stendardo crociato e sembra ricevere l’approvazione del Bambino per porgerlo al re: si tratta dello stendardo di Cristo, tenuto il giorno della Resurrezione, che è anche la bandiera inglese di san Giorgio, ed è da leggersi come un simbolo della fiducia divina riposta nel re.

Non conosciamo l’identità, e neppure la nazionalità, dell’autore; non esiste in alcuna parte d’Europa un’opera che possa veramente essere paragonata a questa. Le ricerche recenti suggeriscono che possa essere il risultato della collaborazione di un pittore inglese alla corte di Riccardo e di un pittore francese.   Il supporto della quercia rimanda comunque al nord Europa, come la particolare preparazione della tavola, con fogli di pergamena incollati sul legno e ricoperti di gesso. Rimandano invece alla tradizione italiana, e in particolare senese, dettagli come le fisionomie, le braccia esili e conserte degli angeli: elementi che magari l’anonimo artista aveva assimilato entrando in contatto, in maniera diretta o indiretta, con gli artisti italiani operanti ad Avignone.

Il dipinto è documentato per la prima volta in un inventario del 1649 delle collezioni di Carlo I d’Inghilterra. Passò in seguito ai conti di Pembroke che lo custodirono a Wilton House (da cui il nome), finché nel 1929 approdò alla National Gallery. La sua rarità è particolarmente significativa perché in Inghilterra un piccolissimo numero di opere religiose figurative sopravvisse all’iconoclastia puritana che seguì l’esecuzione di Carlo I. Si è giunti alla datazione proposta dal museo per il 1395 circa valutando l’età del sovrano e considerando gli undici angeli come uno per gli anni di regno

Una osservazione del dipinto da molto vicino ci svela i suoi meravigliosi dettagli e mette pienamente in risalto la grazia  e la raffinatezza della tecnica usata dall’ignoto pittore: quasi ovunque l’oro è stato finemente inciso e punzonato, persino nella modellatura del drappo di Cristo. le coroncine di rosa che adornano il capo degli angeli, i fiori del giardino celeste, il bianco velo plissettato della Vergine, sono soltanto alcune delle squisite delizie con cui il re poteva confortarsi nel ritiro della preghiera, al riparo dallo scontento popolare e dalle cospirazioni baronesche che avrebbero infine portato il suo regno alla rovina nel 1399 e alla sua stessa morte nel 1400.

Il Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) – Jan van Eyck 

Questo lavoro è un ritratto di Giovanni di Nicolao Arnolfini, ricco mercante italiano residente a Bruges,  e di sua moglie Costanza Trenta. Costituisce uno dei più antichi esempi conosciuti di pittura che ha come soggetto un ritratto privato, di personaggi viventi, anziché le consuete scene religiose. L’opera non rappresenta comunque la celebrazione di un matrimonio  e la moglie non è incinta, come spesso si pensa, ma regge l’elegante vestito  alla moda fiamminga dell’epoca, con guarnizioni di pelliccia d’ermellino.  La scena è ambientata nella camera che, con la presenza del letto nuziale e lo scranno sullo sfondo, è il luogo dell’unione matrimoniale.

L’opera è firmata «Johannes de Eyck fuit hic» e datata 1434. La somiglianza con i graffiti moderni non è casuale. Van Eyck spesso incideva le sue opere in modo spiritoso. La stanza è rappresentata con estrema precisione ed è piena di moltissimi oggetti. Tra questi spicca, al centro, uno specchio convesso, in cui il pittore dipinse la coppia di spalle e il rovescio della stanza, dove si vede una porta aperta con due personaggi in piedi, uno dei quali potrebbe essere il pittore stesso.

Van Eyck era fortemente interessato agli effetti della luce: in questo quadro è la luce fredda e analitica  l’elemento che rende solenne la scena. Vengono sfruttate più fonti luminose (le finestre sono due, come si vede nello specchio), che moltiplicano le ombre e i riflessi: dal panno alla pelliccia, dal legno al metallo, ciascun materiale mostra una reazione specifica ai raggi luminosi. La ricchezza dei dettagli, visibile attraverso l’uso della luce, avvicina l’arte fiamminga a quella del Rinascimento italiano.

Il Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) – Jan van Eyck 

Il Battesimo di Cristo (1450) – Piero della Francesca

Questo pannello costituiva la tavola centrale per un polittico. Potrebbe essere uno dei primi lavori esistenti di Piero della Francesca. I pannelli laterali e una predella furono dipinti all’inizio del 1460, da Matteo di Giovanni (attivo 1452, morto nel 1495). La pala d’altare era nella cappella di San Giovanni Battista nell’abbazia Camaldolese (ora cattedrale) della città natale di Piero, Borgo Sansepolcro. Il paese, visibile sullo sfondo, potrebbe essere proprio Borgo Sansepolcro: il paesaggio ne evoca certamente il territorio.

Gesù, in posizione frontale, riceve il battesimo da san Giovanni Battista nel Giordano, mentre dal cielo compare, in conformità col racconto evangelico, la colomba dello Spirito Santo.  L’artista la rappresenta nella stessa forma delle nuvole. Il dipinto è composto secondo una rigorosa costruzione geometrica in cui Dio Padre, terzo membro della Trinità, poteva essere stato originariamente rappresentato nel semicerchio sopra il pannello.

Il Battesimo di Cristo (1450) – Piero della Francesca

Venere e Marte (1485 ca) – Sandro Botticelli

Nella foto sotto Venere e Marte di Sandro Botticelli, artista simbolo del Rinascimento, il pittore che ha esaltato la grazia femminile con dolcezza ed una sottile vena di malinconia. Il dipinto è stato realizzato nel 1482; i committenti furono probabilmente i Vespucci, una potente famiglia protettrice di Botticelli. Nella composizione sulla sinistra c’è Venere, dea della bellezza, che, sdraiata e tranquilla, guarda Marte, il dio della guerra, mentre dorme. Attorno a Marte diversi fauni cercano di svegliarlo in tutti i modi, mentre altri gli rubano le armi e l’armatura. Marte, privato delle armi, e quindi totalmente inerme, simboleggia la sua totale resa davanti all’amore. È molto interessante anche il formato orizzontale dell’opera, che di solito veniva utilizzato per realizzare dei quadri decorativi da applicare su un cassone o una spalliera; unendo questa ipotesi al possibile legame con i Vespucci, l’opera potrebbe rappresentare un augurio per una futura sposa.

Cassone con una scena di un torneo probabilmente circa 1455-1465, italiano, fiorentino.

Su di esso il dipinto Venere e Marte (1485 ca). Sandro Botticelli

Doge Leonardo Loredan (1501-2) – Giovanni Bellini

Leonardo Loredan fu Doge di Venezia dal 1501 a 1521. In questo ritratto eseguito da Bellini è rappresentato, come tradizione a Venezia,  in abiti da cerimonia: il cappello e i bottoni decorati sono parte infatti del guardaroba ufficiale. Si è identificato il Doge Loredan confrontando questo quadro  con il  ritratto raffigurato sulla sua medaglia. Sul capo porta il cosiddetto “corno”, copricapo tipico dei dogi che veniva indossato sopra un berretto di lino. E’  raffigurato a tre quarti, anziché di profilo, come imponeva la tradizione iconografica dei ritratti dei dogi.  L’opera è firmata in forma latina IOANNES BELLINVS sul cartiglio fissato al parapetto, ed è considerata il risultato più alto della ritrattistica di Bellini, autore che ha contribuito a rendere questa forma d’arte particolarmente popolare a Venezia. L’opera è stata acquistata dal museo nel 1844.

Doge Leonardo Loredan (1501-2) – Giovanni Bellini

Noli me tangere (1514 circa) – Tiziano
In questa splendida tela profondamente innovativa, eseguita intorno al 1514, Tiziano dipinge Maddalena che riconosce Cristo risorto nelle vesti di un giardiniere. E’ proprio a lei, a una donna, a una peccatrice, che Gesù affida il compito di annunciare ai discepoli la sua Resurrezione: un soggetto pittorico che nella tradizione artistica veneta non era mai stato affrontato in questo modo.
Nel quadro di Tiziano, Maria Maddalena ha ancora nella mano l’unguento con il quale avrebbe voluto cospargere il corpo morto di Gesù, pronta quindi a svolgere il suo compito funebre, inginocchiata su un terreno arido e sassoso, privo di vita, quando riconosce il Suo Maestro che la chiama per nome: colui che l’ha salvata con l’amorevole gesto del perdono è in piedi davanti a lei in un tripudio di vegetazione rigogliosa e viva. Tutta la Creazione appare acquistare senso e tutto si manifesta nuovamente vivo. L’albero posto alle spalle di Cristo e della Maddalena è alto verso il cielo e svetta in controluce ai primi bagliori dell’alba.
Gesù con grazia ed eleganza, senza voler turbare Maddalena, sposta il proprio mantello bianchissimo e si scosta con il bacino, ma si protende verso il suo volto guardandola negli occhi. Tiziano dipinge così tutto l’amore di Gesù per questa peccatrice redenta e l’amore di Maddalena per il Salvatore, in una armonia con tutto il paesaggio, con una grazia che non può non commuoverci.
Noli me tangere (1514 circa) – Tiziano
 Autoritratto di Artemisia Gentileschi nelle vesti di Santa Caterina d’Alessandria (1614-1616)
Questo raro pezzo della pittrice romana Artemisia Gentileschi è costato alla National Gallery, che con grande lungimiranza sta guardando all’arte femminile, 4.300.000 euro circa. Noi lo abbiamo potuto ammirare gratuitamente. Per secoli era stato di proprietà di una famiglia francese, prima di essere messo all’asta, lo scorso dicembre, ed acquistato da un mercante d’arte londinese. La National Gallery ha voluto acquisirlo con impegno “corale”, basato sul supporto dell’American Friends of the National Gallery, della National Gallery Trust, dell’Art Fund (attraverso l’eredità di Sir Denis Mahon), Lord e Lady Sassoon, Lady Getty e Hannah Rothschild CBE e di altri donatori, alcuni dei quali hanno voluto rimanere anonimi. Il restauro del dipinto – che prima di essere esposto al pubblico è stato sottoposto a specifici trattamenti – è stato invece reso possibile grazie al contributo di Art Fund.
UQuesta tela ci offre un’occasione unica per ammirare la pittura di Artemisia Gentileschi, la prima donna entrata a far parte dell’Accademia del Disegno di Firenze, un’artista dal talento straordinario, capace di emergere in un mondo dominato dagli uomini e di far fronte con coraggio a una esistenza travagliata, durante la quale fu violentata appena diciottenne da un collega del padre, il pittore Agostino Tassi, contro cui seppe difendersi strenuamente nel corso del processo che ne seguì, subendo interrogatori umilianti e persino violente torture fisiche. Artemisia accettò infatti per farsi giustizia di testimoniare sotto tortura per provare la sua verginità precedente allo stupro e venne sottoposta alla sibilla, supplizio progettato per i pittori, che consiste nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare.
Già affermatasi agli occhi dei suoi contemporanei – tra i suoi committenti figuravano il Granduca di Toscana, il re Carlo I d’Inghilterra e Filippo IV di Spagna – Artemisia seppe identificarsi e rappresentarsi sempre nei panni di una donna forte, un’eroina capace di affermare se stessa a dispetto delle avversità come in questo autoritratto in cui Artemisia ci guarda, travestita dalla santa che aveva sconfitto cinquanta teologi pagani in una contesa di retorica ed era poi sopravvissuta alla tortura della ruota.
Non facciamole però il torto di considerare la sua opera solo come riscatto o sublimazione dalle violenze subite, perchè i suoi quadri esprimono invece una potenza e una varietà che vanno oltre la sua vicenda personale. I generi che lei affronta sono decisamente lontani da quelle pitture femminili nelle quali si erano avventurate le altre (poche!) pittrici sino ad allora (nature morte, paesaggi, ritratti), affrontando invece la pittura “alta”, con soggetti sacri e storici. E per una volta non valutiamo la Gentileschi in quanto donna, ma come una grande artista che svolse un importante ruolo nella prima metà del XVII secolo nell’ambito dei pittori caravaggisti.
Autoritratto di Artemisia Gentileschi nelle vesti di Santa Caterina d’Alessandria (1614-1616)
 Il Ritrovamento di Mosè (1630) – Orazio Gentileschi
Dopo il Ritratto di Artemisia Gentileschi,  vi raccontiamo la storia di questa magnifica opera di suo padre Orazio Gentileschi (1563-1639), una delle figure più interessanti del Barocco italiano, esposto accanto al quadro della figlia e ai capolavori di Caravaggio. Gentileschi, nato a Pisa, figlio di un orafo, ebbe una carriera internazionale e, insieme a van Dick e Rubens, venne a lavorare a Londra alla corte di Carlo I di Inghilterra. Fu qui che nel 1630 dipinse questo quadro, Il Ritrovamento di Mosè, che ha quindi un legame stretto con la capitale britannica. Il quadro, concesso in prestito da una ventina d’anni da un collezionista privato alla Gallery, che vantava un diritto di prelazione, era stato valutato 22 milioni di sterline (oltre 25 milioni di euro). L’istituzione ne doveva pagare, sottratte le detrazioni fiscali, quasi 19,5 milioni, ma ne aveva in cassa circa 17 milioni. Per i 2 milioni mancanti ecco l’idea: la Galleria lancia con l’hashtag #SaveOrazio una grande colletta e organizza conferenze, mostre, pubblicazioni e attività educative per salvare questa opera e renderla per sempre alla collettività. A Dicembre 2019 l’annuncio: l’obiettivo è stato raggiunto e la National Gallery ha potuto acquistare il capolavoro di Orazio Gentileschi che è ora in mostra nella sala 31 della galleria inglese dove noi l’abbiamo potuto fotografare.  Orazio è salvo “for everyone, forever”!
 Il Ritrovamento di Mosè (1630) – Orazio Gentileschi

Giovane donna seduta alla spinetta (1670-72 circa) – Johannes Vermeer 

Veermer dipinse una  giovane donna in piedi davanti ad una spinetta, uno degli strumenti più popolari nel diciassettesimo secolo, all’interno di una stanza arredata di una ricca abitazione di Delft, con l’intenzione  di raccontare una tipica scena quotidiana. La giovane donna  non sarebbe nessuna committente in particolare, ma una qualsiasi ragazza intenta a dilettarsi con la musica. Come la maggior parte dei lavori di Vermeer, non si ha alcuna documentazione sull’opera. La datazione, indicata tra il 1670 e il 1672,  si basa sullo stile e sulla foggia degli abiti della ragazza  che porta un’acconciatura sofisticata, con uno chignon e riccioli che ricadono liberi sulla fronte, e indossa un corsetto azzurro guarnito da nappe che scendono sulle maniche gonfie del vestito in raso giallo, decorato da perline e nastrini. Al collo porta una collana di perle che l’artista dipinse con piccole gocce di bianco. La spinetta mostra una veduta dipinta sul lato interno del coperchio. Per i dipinti appesi alle pareti l’artista dovette ispirarsi ad opere esistenti: il paesaggio potrebbe essere di Jan Wijnants o Allart van Everdingen, mentre il Cupido che mostra una carta potrebbe essere di Caesar van Everdingen, fratello di Allart.

Giovane donna seduta alla spinetta (1670-72 circa) – Johannes Vermeer 

 

Ritratto di Carlo I a cavallo (1637-8 ca) – Anthony van Dyck 

Nel 1625 il re Carlo I (1600 – 1649) successe a suo padre Giacomo I, sul trono di Gran Bretagna e Irlanda. Van Dyck  divenne suo pittore di corte nel 1632 e lo rappresentò in diverse opere che rispecchiano il pensiero del sovrano che si sentiva monarca assoluto, legittimato da Dio.  Questo ritratto probabilmente risale agli anni successivi al periodo inglese di Van Dyck, probabilmente al 1637, poco prima dello scoppio della guerra civile che portò all’esecuzione del re nel 1649. L’opera  raffigura il re a cavallo, alla testa dei suoi, nella sua armatura da parata, con il bastone del comando e con al collo il medaglione del sovrano dell’Ordine della Giarrettiera.  Il magnifico cavallo e i colori smorzati, ma ricchi del panno sulla sella e del valletto che regge l’elmo completano l’eleganza del cavaliere.

Ritratto di Carlo I a cavallo (1637-8 ca) – Anthony van Dyck 

 Sansone e Dalila (1609-10 ca) – Peter Paul Rubens 

Sansone, eroe ebraico dalla forza prodigiosa, si innamorò di Dalila. Questa corrotta dai Filistei, nemici di Davide, riuscì dopo una notte d’amore a scoprire che la forza gli veniva dai capelli che non erano mai stati tagliati e, mentre lui  giaceva addormentato, glieli fece radere dal capo. Sansone venne così privato delle forze e i Filistei riuscirono a catturarlo. (Antico Testamento, Giudici 16: 17-20). Rubens raffigura un interno a lume di candela con i Filistei che aspettano vicino alla porta, mentre un barbiere taglia i capelli di Sansone e una donna anziana gli fa luce. In una nicchia dietro di loro c’è una statua della dea dell’amore, Venere, con Cupido con un riferimento alla causa del destino di Sansone: la caduta di un uomo a causa del suo desiderio per una donna è stato un soggetto molto frequente nell’arte cinquecentesca dei Paesi Bassi. La figura muscolosa di Sansone è improntata alla scultura antica e a modelli michelangioleschi e anche la posa di Dalila replica specularmente, quella della Leda e della Notte di Michelangelo. Per i seni di Dalila, Rubens si rifa ai marmi romani, ma  dipingendo le forme della donna con una rara sensualità. Nell’ambigua espressione di Dalila si combinano sensualità, trionfo e pietà.

Questo sontuoso dipinto fu commissionato da Nicolaas Rockox, consigliere comunale di Anversa, per la sua casa in città nel 1609-10.  Esistono due disegni preparatori dell’opera nella collezione privata van Regleren-Altena di Amsterdam e un bozzetto  nel Cincinnati Art Museum. È stato acquistato dalla Galleria nel 1980.

Sansone e Dalila (1609-10 ca) – Peter Paul Rubens 

Autoritratto all’età di trentaquattro anni (1640) – Rembrandt 

Questo autoritratto è strettamente legato ad un’acquaforte  eseguita da Rembrandt nell’anno precedente, il 1639. La composizione sia della stampa che del dipinto è stata influenzata da altri ritratti del passato quali il  Ritratto di Baldassare Castiglione di Raffaello, oggi al Louvre, o il Ritratto di Gerolamo Barbarigo di Tiziano, anch’esso conservato alla National Gallery di Londra. o l’Autoritratto  di Albrecht Dürer, esposto al Prado di Madrid. Rembrandt, riferendosi deliberatamente ai suoi celebri predecessori, sembra volersi porre come continuatore della grande tradizione dei vecchi maestri. Il ritratto ci mostra un Rembrandt a 34 anni, al culmine della sua carriera, in posa fiera e sicura, con indosso una giacca  di velluto nera foderata di pelliccia che lascia intravedere una camicia finemente ricamata secondo la moda del XVI secolo.

 L’opera ha subito un danno visibile a occhio nudo e presenta  un leggero infossamento e raggrinzimento della superficie dovuto al trasferimento degli strati di pittura dalla tela originaria a una nuova tela. E’ stata acquistata dalla Galleria nel 1861.

Autoritratto all’età di trentaquattro anni (1640) – Rembrandt 

La Venere con lo specchio (1647-51) – Diego Velázquez

Questo è l’unico esempio giunto a noi di un nudo di donna di Velázquez, certamente uno dei più sensuali della storia dell’arte. Il soggetto era molto raro nella Spagna nel XVII secolo perché incontrava la disapprovazione della Chiesa. Venere, la dea dell’amore è ritratta di spalle, sdraiata su un lenzuolo nero che mette in risalto la forma dei glutei e la luce dell’incarnato, con Cupido che le tiene lo specchio. Troviamo documentazione del dipinto per la prima volta nel giugno del 1651 nella collezione del Marchese del Carpio, figlio del primo ministro spagnolo. Probabilmente fu conservato in privato, evitando così la censura dell’Inquisizione spagnola. La Venere con lo specchio è conosciuta anche come Venere di Rokeby perché fu nella collezione Morritt a Rokeby Park prima della sua acquisizione da parte della National Gallery nel 1906 tramite una campagna di donazioni, cui contribuì anche il re, per scongiurare il rischio che l’opera lasciasse la Gran Bretagna.

La Venere con lo specchio (1647-51) – Diego Velázquez

Cortile dello scalpellino (1725) – Canaletto

Benché siamo soliti associare il nome del Canaletto a scene cristalline, prodotte in serie, di celebri vedute, il “Cortile dello scalpellino”, il suo capolavoro, non appartiene a questo genere. Pittura relativamente giovanile, quasi certamente eseguita su commissione per un cliente veneziano, essa presenta una veduta intima della città, come osservata da una finestra sul retro. Non si tratta, in realtà, del cortile di uno scalpellino, ma del Campo San Vidal, ritratto durante le opere di ricostruzione dell’adiacente chiesa di San Vitale.  La chiesa che si vede oltre il Canal Grande è Santa Maria della Carità, ora Accademia delle Belle Arti, la principale pinacoteca di Venezia. Le opere mature del Canaletto sono dipinte in maniera piuttosto misurata su un fondo bianco riflettente, ma in questo caso la pennellata è stata applicata liberamente sopra una base di bruno rossiccio, cosa che spiega tecnicamente la calda tonalità dell’insieme. Nubi temporalesche si vanno diradando, e il sole proietta dense ombre, le cui marcate diagonali contribuiscono a definire lo spazio e ad articolare l’architettura. Ad animare la scena e a determinare la scala del dipinto non sono dogi o dignitari, ma semplici lavoratori e bambini veneziani. In primo piano sulla sinistra, una madre ha posato la scopa per accorrere in aiuto del piccolo monello caduto a terra, osservata da una donna che arieggia la biancheria da letto a una finestra sovrastante e da una bambinetta dall’aria compunta.  Gli scalpellini inginocchiati sono intenti al lavoro. Una donna siede filando alla finestra. La città, segnata dalle intemperie, cadente, continua a vivere; e sotto l’alta torre campanaria di Santa Maria della Carità c’è la misera casupola, con un audace drappo rosso appeso alla finestra, che riceve la più viva luce del sole.

Cortile dello scalpellino (1725) – Canaletto

Whistlejacket (1762) –  George Stubbs

Nel 1762 Charles Watson-Wentworth, secondo marchese di Rockingham, commissionò l’esecuzione di un dipinto raffigurante il suo cavallo Whistlejacket a George Stubbs, pittore di cavalli di grande fama. Whistlejacket, discendente da uno dei primi tre cavalli arabi importanti in Gran Bretagna per avviare l’allevamento di purosangue, era un celebre cavallo da corsa  che ebbe grande notorietà in seguito alla vittoria di una corsa a York nell’agosto del 1759 che valse circa duemila ghinee al proprietario.

Secondo alcuni scrittori del periodo, l’intenzione originale del pittore era quella di eseguire un cavaliere, forse Giorgio III, ma è più probabile che Stubbs abbia sempre inteso mostrare il cavallo da solo, come poi fece, scegliendo uno sfondo neutro monocolore, piuttosto che  inserirlo in un contesto naturale, per esaltarne la plasticità e la bellezza. Il cavallo è ritratto a grandezza naturale (il dipinto misura 292×246,4 cm)  mentre si impenna sulle zampe posteriori . Il dipinto piacque molto al committente che lo espose in una sala appositamente edificata e denominata «Whistlejacket Room»: successivamente l’opera fu esposta a Londra nella Kenwood House dal 1971–81 e nella Tate Gallery nel 1984–85, per poi giungere nel 1997 nelle collezioni della National Gallery, sempre a Londra. La tela, esposta nella sala n. 34, è considerata tra le più famose del museo londinese.

Whistlejacket (1762) –  George Stubbs

Un allegoria di Luigi XVI – Francesco Solimena (1657-1747) 
Questo lavoro è una bozza preparatoria eseguita probabilmente per il grande quadro conservato all’Ermitage di San Pietroburgo. Minerva (indicante la saggezza) è seduta su un leone sdraiato a sinistra: indica il medaglione (vuoto qui, ma mostra l’immagine di Luigi XIV nel dipinto di San Pietroburgo) alla figura alata della Storia, il cui libro è appoggiato sulla schiena di Crono. La commissione per dipingere l’allegoria di San Pietroburgo venne dal cardinale Gualterio (1660 – 1728), nunzio apostolico in Francia, che poi presento’ il lavoro a Luigi XIV.
Il quadro di Francesco Solimena, pittore e architetto, attivo in area napoletana con committenze nella maggiori corti europee, noto come l’Abate Ciccio, da noi con grande sorpresa rinvenuto alla National Gallery di Londra tra un dipinto di Luca Giordano e un altro di Guido Reni, ci mostra il pregevole lavoro di uno dei massimi esponenti della pittura meridionale.
Formatosi alla bottega del padre, dal 1674, si trasferisce a Napoli dove viene a contatto con la pittura di Luca Giordano e Mattia Preti; dal 1680 si appropria della sperimentazione cromatica di Luca Giordano, allievo di Josè de Ribera che aveva permesso la fioritura della pittura barocca-napoletana.
Allievo del Solimena fu don Oronzo Tiso, autore delle due pale d’altare esposte nel duomo di Brindisi, a raffigurare San Leucio e San Pelino. Tiso e Solimena collaborarono alla fattura di numerose tele tuttora esposte nella chiesa di S. Irene a Lecce.

Un allegoria di Luigi XVI – Francesco Solimena (1657-1747) 

Girasoli (1888) – Vincent van Gogh

Questo è uno dei quattro dipinti dei girasoli eseguito nel periodo agosto – settembre 1888, con cui Van Gogh intendeva decorare la stanza di Gauguin nella cosiddetta casa gialla che aveva affittato ad Arles, nel sud della Francia. Lui e Gauguin lavorarono insieme in quella casa tra ottobre e dicembre 1888.

Girasoli (1888) – Vincent van Gogh

Van Gogh scrisse al fratello Theo nell’agosto 1888:

Devo lavorarci duro, dipingo con l’entusiasmo di un marsigliese che mangia la bouillabaisse, che non vi sorprenderà quando saprete che sto lavorando alla pittura di alcuni girasoli. Se riesco a completare questa idea ci saranno una decina di pannelli. Quindi il tutto sarà una sinfonia in blu e giallo. Sto lavorando tutte le mattine dal sorgere del sole in poi, perchè i fiori appassiscono in fretta. Ora sono al quarto quadro di girasoli. Questo quarto è un mazzo di 14 fiori … dà un effetto singolare.

I fiori morenti vengono dipinti con pennellate spesse, un impasto che evoca la struttura delle infiorescenze. Van Gogh produsse una replica di questo quadro, nel gennaio 1889, e, forse, un altro più avanti nel corso dell’anno. Le varie versioni e le repliche hanno prodotto un vivace dibattito tra gli studiosi dell’artista.

Girasoli (1888) – Vincent van Gogh

Le  grandi bagnanti (1894-1905)  – Paul Cézanne 

Cézanne dipinse bagnanti, soggetto a lui molto caro,  dal 1870 in poi, con varie composizioni sia maschili che femminili, singolarmente e in gruppi. In tarda età, dipinse tre gruppi femminili di bagnanti: uno è questo esposto alla Galleria Nazionale, mentre gli altri due sono al Museum of Art e alla Fondazione Barnes,  a Philadelphia. Sembrerebbe che al momento della sua morte stesse lavorando contemporaneamente a tutte e tre le opere. In questi quadri Cézanne reinterpreta una lunga tradizione di artisti come Tiziano e Poussin, con dipinti di figure nude immerse nel paesaggio ma, mentre i soggetti delle loro opere provenivano però dal mito classico, Cézanne non utilizza fonti letterarie dirette. Il  tema centrale è l’armonia delle figure con il paesaggio espresso attraverso forme solide, la rigorosa struttura architettonica e le tonalità della terra dei corpi. Quando venne esposto nel 1907 questo dipinto e il suo messaggio divenne fonte di ispirazione per il nascente movimento cubista; sia Picasso che Matisse ebbero un forte interesse per questo quadro. Picasso nello stesso periodo (e anche con una tecnica molto simile), diede vita al suo capolavoro intitolato Les Demoiselles d’Avignon.

Le  grandi bagnanti (1894-1905)  – Paul Cézanne 

Bagnanti ad Asnières (1884) – Georges Seurat 

Asnières è un sobborgo industriale a nord-ovest di Parigi sulla Senna. In questo dipinto,  la prima delle grandi composizioni di Seurat,  è raffigurato un gruppo di giovani operai che trascorre del tempo libero lungo il fiume. Seurat disegnò a matita le singole figure utilizzando modelli dal vivo, e fece poi sul luogo piccoli schizzi ad olio che usò per poi in studio per realizzare la composizione finale riproducendo gli effetti di luce e l’atmosfera naturale. Sono arrivati a noi circa 14 di quei bozzetti ad olio e 10 disegni. Il dipinto non fu eseguito con la tecnica di puntinismo si Seraut, che ancora non la utilizzava, ma venne in seguito rielaborato dall’artista che utilizzò  in alcune aree i suoi tipici puntini di colori contrastanti per creare un vibrante effetto luminoso. Ad esempio furono aggiunti punti di arancio e blu al cappello del ragazzo. La semplicità delle forme e l’uso di figure regolari chiaramente definite dalla luce ricorda i dipinti dell’artista rinascimentale Piero della Francesca. Per l’uso di figure di profilo Seurat potrebbe anche essere stato influenzato dall’arte dell’antico Egitto.

Bagnanti ad Asnières (1884) – Georges Seurat 

Bagnanti a La Grenouillère (1869) – Claude Monet

Questo celebre dipinto di Monet raffigura un popolare stabilimento balneare con un adiacente caffè galleggiante sulla Senna, vicino Bougival, a ovest di Parigi. Nell’estate del 1869 Monet viveva vicino a La Grenouillère con la sua compagna, Camille, e il loro figlio. Lavorando accanto a Renoir, realizzò alcuni schizzi di questa scena in modo molto fresco e diretto, forse in preparazione di una tela leggermente più grande, ora perduta. L’opera risulta eseguita a mano eccezionalmente libera forse proprio perchè si trattava solo di uno schizzo preparatorio di una composizione più ambiziosa da eseguire in studio. Le barche ormeggiate in ombra sono state realizzate con ampie pennellate di colore, mentre  l’artista ha utilizzato i puntini sull’acqua del fiume in piena luce e sullo per rappresentare il gruppo di bagnanti.

Bagnanti a La Grenouillère (1869) – Claude Monet

 

 

 

 

The National Gallery 

The National Gallery – Piccola guida di Erika Langmuir

 

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