Il Castello di Mare (o Castello Alfonsino)

Le fortezze sull’isola di S. Andrea (*)

“Quest’opera militare, suggerita dalla necessità di difendere il porto e la città dagli attacchi dei turchi, fu anche detta Castello Rosso per il colore della pietra, cavata dai pressi, nell’isola stessa.

“Il Castello a mare era già chiamato così per distinguerlo da quello di Terra se, il 30 ottobre 1311,  “si fa premura al Giustiziere di Terra d’Otranto d’assoldare altri  inservienti a  custodia del Castello a Mare e la Torre della Catena del porto di Brindisi e, se occorre, di chiamare a difesa i baroni e le altre genti” (S. De Crescenzo, Notizie storiche .. – da N. Vacca – Brindisi Ignorata p. 157) .

“Ai principi del ‘400 il castello era alquanto malridotto. Infatti è del 1410 un ordine di re Ladislao al Giustiziere e al maestro della Camera di Terra d’Otranto di eseguire riparazioni alla fortezza a mare nonchè ai suoi ponti e alla sua catena.” (CD, III a. 1410 in Biblioteca Arcivescovile A. De Leo MSS vol. 43; id.)

Dopo la presa di Otranto (**)  da parte dei turchi,ossia dopo il 1480, alle due torri, la cilindrica e la quadrata, ne fu aggiunta un’altra poligonale, come terzo vertice del castello ormai triangolare, fortificato con alte mura. (1)

Il Castello e il Forte visti dall’alto

Darsena con, sullo sfondo, l’ingresso al Castello Alfonsino
Darsena a sud
Il Castello e il Forte visti dall’alto
Torre del Castello
Torre del Castello

“Nell’interno di questo triangolo dovette, probabilmente, essere inclusa e poi distrutta la chiesa di S. Andrea e l’annessa abazia. Nella seconda metà del secolo XVI, fu costruito alle spalle del castello il Forte che, non coprendo tutto il resto della superficie dell’isola, si pensò di isolarlo praticando nella roccia il taglio di un canale.” (1)

Il Castello e il Forte visti dall’alto
Canale Vicereale
Il Castello e il Forte visti dall’alto
Canale Vicereale

“La forma del complesso fortificato ovviamente ricalca quella del perimetro dell’isola, con forma di triangolo allungato nella direzione est-ovest, con la base a nord sul  Canale Angioino ed il vertice a sud sulla darsena del Castello. La base è dotata agli estremi di due possenti bastioni pentagonali, rispettivamente chiamati della Intavolata e di Tramontana e al centro dei due lati lunghi di due bastioni rompitratta, a loro volta chiamati di Santa Maria e di San Pedro.
Lungo questi lati lunghi si dispongono una serie di vani con volta a botte posti su due livelli, che si aprono all’interno della piazza d’armi. I vani del livello superiore si affacciano lungo un ballatoio continuo con parapetto, sovrastante un motivo ad archeggiature a tutto sesto.
Sul lato sulla darsena si apre il monumentale portale con arco a tutto sesto sovrastato dalle insegne del castellano Ortiz de Mestanza ed ai lati dello stesso vi erano gli alloggi del governatore ed una serie di vani di servizio, fra cui nel bastione triangolare, il magazzino delle polveri, ed alla destra la Chiesa del Forte Nuovo.
A nord la piazza d’armi si chiude con la rampa di accesso alle coperture per le artiglierie mobili, con le cisterne aragonesi e con i vani già destinati a prigioni.” (2)

Il Castello Alfonsino e Forte a mare (opera a corno) visti dall’alto
Opera a corno vista dal Torrione San Filippo
Opera a corno vista dal Torrione San Filippo
Ingresso dell’alloggio del Castellano
Alloggi militari

Il Castello e il Forte visti dall’alto
Alloggi militari
Alloggi militari
Il Castello e il Forte visti dall’alto
Alloggi militari
Balaustra in pietra con archi.
Ingresso darsena visto dall’esterno

“Il pericolo turco fu, esplicitamente, alla base della decisione reale di fortificare adeguatamente Brindisi. E’ mentre i turchi sono ancora asserragliati in Otranto che, nel febbraio del 1481, Ferrante d’Aragona dispone l’avvio dei lavori per la costruzione di una fortezza a guardia del porto di Brindisi.(..) ” (3) “In particolare nel 1485 trasforma il torrione di Ferrante, riducendolo a vera forma di castello. Fa ampliare la fortezza verso il levante e fece un antemurale con baluardi e “fianchi di meravigliosa grossezza”, riducendola a vera forma di castello e da lui prese nome. (..) Fu realizzato un bastione triangolare verso il mare aperto e un bastione circolare verso il porto interno, di San Filippo. La forma diversa è il frutto della reazione ai diversi sistemi di attacco e di difesa: Peraltro quello esterno ha forma adatta a resistere alle mareggiate ed alle artigliere da mare. Quello circolare è più adatto per la sistemazione delle batterie a difesa della città e dell’isola di Sant’Andrea.
Ai piedi del torrione di San Filippo furono sistemate ed aperte due cannoniere di estremo interesse, perché adatte al tiro radente a filo d’acqua” (2)

Il Castello e il Forte visti dall’alto
Antico faro
Il Castello e il Forte visti dall’alto
Castello Alfonsino
Torrione San Filippo interno darsena

“Fu allora deciso l’isolamento della rocca (..) col taglio dello scoglio e l’apertura di un canale. Col successivo intervento del senese Francesco di Giorgio, nel 1492, il castello può dirsi compiutamente definito con il grande salone del primo piano e le gallerie coperte con volta a botte al livello inferiore.” (3)

Camerate con volta a botte
Salone del Castellano
Sale del Castello
Sale del Castello

“Per dare un’idea dell’importanza della piazzaforte di Brindisi in Puglia al tempo degli Austriaci: nel 1572 erano a Brindisi duemila soldati in pianta stabile (come a Taranto); a Trani mille, a Bari 600, ad Otranto 400. Un tentativo di attacco al forte avvenne nei primi giorni del giugno 1616, durante il regno di Filippo III, da parte di undici vascelli veneziani, che furono dissuasi da otto grandi navi da guerra spagnole, comandate dal gen. Francesco di Ribera.” (***)

“Le vicende del 1528, con lo sbarco veneziano di uomini ed artiglierie su Sant’Andrea (si veda sull’argomento la scheda che segue: “Sei giorni per Tristan Dos”), evidenziarono la necessità di fortificare la parte dell’isola rimasta sguarnita. Nel 1558 si avvia la costruzione del Forte che si protrarrà per circa 46 anni con l’intervento di alcuni fra i più celebri architetti militari del tempo: Giulio Cesare Falco fra questi. Il canale aragonese si trasforma in una tranquilla darsena di collegamento fra nuova ed antica struttura su cui pure s’intervenne con l’adeguamento del grande baluardo circolare di San Filippo, in direzione del porto, e di quello triangolare verso il mare aperto.” (3)

Il Castello e il Forte visti dall’alto
Castello Alfonsino
Darsena lato nord
Darsena lato nord
Darsena lato nord
Darsena lato nord

Il Forte, che ha l’accesso dalla darsena, reca sul portale “le insegne di Filippo III (1598-1621) e in basso e a destra rispetto al primo, del conte di Lemos, vicerè dal 1599 al 1601. ” (3) (°)

Ingresso al Forte lato darsena
Portale con le insegne di Filippo III
Portale con le insegne di Filippo III

“Al nucleo aragonese può accedersi dalla darsena, attraverso la porta su cui sono le armi araldiche di Pietro Girone, duca d’Ossuna, vicerè di Napoli dal 1582 al 1586, Ferrante Caracciolo, conte di Biccari e duca di Airola, giustiziere di Terra d’Otranto e di Lorenzo carrillo De Melo, castellano delle fortezze di S. Andrea fra il 1576 e il 1592. Quest’ultimo fu accusato di illeciti traffici e varie malversazioni dall’arcivescovo Andrea de Ayardes: le fortezze risultavano quasi depredate  dall’avidità dimostrata dall’ipotetico responsabile.” (3) (°)

Ingresso al Castello lato darsena
Ingresso con arma araldica del vicerè di Napoli

“Di particolare interesse il salone di rappresentanza, con lavabo dalle ricche cornici ornate con motivi fitiforme le laterali, la superiore con richiami al bestiario medievale e stemmi dell’imperatore Carlo V, di Carlo Lannoy, vicerè di Napoli dal 1522 al 1527 e di Ugo de Moncada che del Lannoy fu immediato successore.” (3) (°)

Salone del Castellano
Grande camino scolpito in pietra

Lavabo dalle ricche cornici ornate

” Il Forte fu attaccato, danneggiato ed espugnato, il 9 aprile 1799, dal vascello francese “Il Generoso”. Brindisi, rimasta fedele ai Borboni, dopo che i rivoluzionari francesi, entrati a Napoli tre mesi prima, vi avevano proclamato la repubblica, ospitava in quei giorni due controrivoluzionari corsi arruolati nell’esercito borbonico, Giovanni Francesco di Boccheciampe e Giovan Battista De Cesari. Costoro assunsero il comando delle batterie del Forte, danneggiarono la nave francese (un colpo di cannone ne uccise il comandante) che tuttavia, aiutata da otto paranze barlettane favorevoli alla causa rivoluzionaria, riuscì a smantellare la fortezza nel versante in cui era disarmata e a conquistarla. I francesi entrarono in città ma si ritirarono in fretta pochi giorni dopo, il 16 aprile, lasciando le provviste alimentari che avevano trovato nel Forte (farina, biscotti, vino, fagioli, ceci, carne salata). Boccheciampe fu preso e fucilato dai rivoluzionari nei pressi di Trani.

Nel secolo successivo, castelli e fortezze persero la loro funzione difensiva: il Castello Svevo di Brindisi fu utilizzato come bagno penale, il Forte a Mare come lazzaretto, il Castello Alfonsino come sede di un faro e, durante la Grande Guerra (1915-1918), come deposito di mine.” (***) Brindisi diviene una base navale di primissimo piano ed il Forte a Mare diventa presidio della R. Marina, destinato, allo scoppio della Grande Guerra, a deposito di torpedini e dei relativi detonatori. Le truppe troveranno alloggio nell’Opera a Corno, mentre l’isola ospita diversi armamenti e batterie di cannoni. Nel 1869 viene completata la diga di Bocche di Puglia, che collega la terraferma con l’isola.

Stele che reca scolpita la data del 18.11.35  XIV

Epigrafe marmorea esposta nella ex-chiesa

“Nel 1984, la Marina Militare consegnò il complesso dell’isola (forte e castello, 28.600 metri cubi, oltre ai grandi spazi aperti) al Demanio dello Stato, che lo affidò alla Soprintendenza regionale ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici. ” (***)

“E’ evidente lo stato complessivo di degrado, dovuto anche al degrado dei materiali costitutivi ed al fatto di essere costruito con lo spiccato delle murature direttamente in acqua. Un fronte sulla darsena è crollato, così come parzialmente il Bastione di Santa Maria, direttamente sul mare.

Il Castello e il Forte visti dall’alto
Darsena lato sud


Questo lato ad est, privo di qualunque frangiflutti e protezione è stato ed è oggetto di continui sgrottamenti nelle parti basamentali delle murature, con distruzione del paramento esterno e di parte del nucleo.

La scomparsa di qualunque tipo di rivestimento, peraltro, è una delle principali cause del degrado delle murature, costituite da conci di calcarenite legati con malta aerea, che presentano diffuse alveolizzazioni dei conci e polverizzazioni della malta, a causa della umidità ascendente e dell’ambiente marino.” (2)

Il resto della storia è ancora da scrivere; perchè il castello, privo di una destinazione funzionale, lasciato sguarnito dalle autorità che lo avevano in custodia è stato depredato e vandalizzato e, adesso, è stato chiuso alla cittadinanza in attesa di restauri ma, è rimasto aperto a ladri e malfattori che, soprattutto di notte, imperversano.

Storie dal Castello

Non solo pietre…, ma l’immagine del tempo, voluta e creata dalle generazioni che ci hanno preceduto, con determinate caratteristiche in funzione delle loro esigenze di protezione e difesa. Cerchiamo quindi di conoscere meglio il Castello e quelli che furono i nostri antenati, attraverso gli scritti che descrivono le gesta di due, che del Castello furono i custodi, in differenti periodi di tempo: il primo, per rappresentare le difficili situazioni di vita  del Settecento e la nascita di un’assistenza ai bisognosi, il secondo la battaglia di Tristan Dos e dei suoi uomini.

Il Pio “Monte Ferreyra”

“Il 18 giugno 1715 il Castellano Ferreyra, insieme a 700 spagnoli lasciò Forte a mare, che venne occupato dal gen. Valles. In luogo di tornare in patria o passare in Ungheria al servizio del nuovo sovrano, come molti della guarnigione di Napoli, il Ferreyra e tutti i suoi soldati e famiglie, preferirono restare a Brindisi, come loro seconda patria.”
Nella prima metà del ‘700, epoca in cui visse a Brindisi don Aloysio Ferreyra, si verificò l’estensione del latifondo e il conseguente peggioramento delle già misere condizioni economiche, anche per il diffondersi di epidemie che sterminavano intere famiglie. Malgrado ciò, “secondo il catasto conciario, per l’anno 1754, su 1355 capifamiglia iscritti in catasto 33 erano nobili, 30 nobili viventi, 24 esercitavano arti liberali, 237 erano artigiani, 225 erano dediti alla vita del mare e 50 ad attività commerciali. Nel 1758 il numero degli abitanti era salito a 7952 persone, escludendo però i religiosi, i militari dei due castelli (di Terra e di Mare) e la gente di passaggio, che si calcolava in circa 2500 persone.”
All’epoca la maggior parte dei beni apparteneva alle poche famiglie nobili, mentre il popolo viveva nella miseria, in case malsane e piccole con il tetto di canne. Per alleviare il problema della fame e delle difficoltà economiche sorsero spontaneamente, ad opera di laici e religiosi,  i “Monti di pietà”.  Nessuna iniziativa si registrava da parte dello Stato che, però, non ostacolava la beneficenza. Questo era anche l’ambiente del Castellano Ferreyra.
Essendo il ricco castellano anche un fervido credente, con atto notarile, oltre a esprimere la volontà di essere seppellito nella cappella di S. Teresa, da lui fatta costruire nel 1698, volle istituire il “Monte dei Poveri” con un capitale di 9.000 ducati, le cui rendite dovevano essere distribuite annualmente alle vedove e i figli dei soldati poveri del forte, e in loro mancanza ai poveri della città.

Alcuni anni dopo, avendo constatato che molte ragazze figlie di soldati spagnoli poveri non potevano sposarsi convenientemente per mancanza di un’adeguata dote, istituì anche un “Monte di maritaggio”. Ogni anno dovevano scegliersi, con sorteggio, 4 povere zitelle, discendenti da soldati spagnoli, scelte tra ragazze povere e onorate. Per tale fondo assegnò 5.000 ducati di capitale. Con ulteriore atto successivo stabilì che, erede universale ed esecutore testamentario fosse il Capitolo di Brindisi. Dispose anche una somma da destinare all’Ospedale della città.
Gli atti notarili del Ferreyra evidenziavano la volontà di soccorrere i soldati poveri del Forte e i loro discendenti. In quell’epoca molti di loro si erano accasati a Brindisi con ragazze del luogo, dando origine a nuclei familiari spesso poveri, perché costretti a rinunciare al servizio militare e procurarsi un lavoro. Questi ex soldati spagnoli venivano sempre additati come “giannizzeri” anche se il termine era improprio in quanto con tale termine era indicata  la fanteria che componeva la guardia personale del sultano. Da allora in poi, col termine “giannizzero” a Brindisi, si intenderanno sempre i discendenti dei soldati spagnoli.
Il 15 giugno 1912 la Congregazione di Carità (che era la denominazione ottocentesca delle istituzioni statali destinate a venir incontro ai bisogni della popolazione povera) del Comune di Brindisi deliberò il concentramento di tutto il patrimonio del Pio Monte Ferreyra nella Congregazione di Carità e la beneficenza fu devoluta all’Ospedale di Brindisi per la cura degli infermi. Così si legge nel verbale: “non esistendo da secoli guarnigione spagnola nel Forte, non esistono in conseguenza vedove ed orfani di soldati spagnoli, e per mutate condizioni non esiste parimente una categoria di poveri del Forte: pertanto delle rendite del Monte dovrebbero beneficiare gli orfani e i pupilli poveri della città”. E in un verbale successivo si sosteneva che: “La categoria poveri più bisognosa non è già quella degli indigenti sprovvisti di lavoro, che anzi la gran massa della popolazione di Brindisi è continuamente occupata e ben remunerata, tanto che la eccessiva offerta di lavoro richiama a Brindisi i lavoratori degli altri paesi della provincia; … invece la categoria dei proletari ammalati è quella che ha titolo a maggiore considerazione di essere soccorsa; perciò ne sia indispensabile nell’interesse dei poveri che il fine del Pio Monte Ferreyra sia trasformato da elemosiniere a fine d’assistenza agli ammalati poveri e quindi a favore dell’Ospedale…All’unanimità la delibera fu approvata.

Il 3 giugno del 1937 veniva creato l’Ente Comunale di Assistenza (ECA) che sostituì in tutto e per tutto la Congregazione di Carità.

Sintesi liberamente tratta da “Il Pio Monte Ferreyra e i Giannizzeri di Brindisi” di Giuseppe Antonio Andriani (Il Pio Monte pdf)

Sei giorni per Tristan Dos

Nel 1527 le truppe ispano-tedesche di Carlo V davano al sacco Roma intimando dure condizioni di resa al Pontefice Clemente VII detenuto in Castel Sant’Angelo. La Lega tra Francia, Venezia e Genova inviò nell’Italia meridionale un esercito mercenario ed una potente flotta agli ordini del Lautrech, ammiraglio francese che, tra il 1528 e il ’29, inflisse pesanti perdite al viceregno napoletano attendendo rinforzi che tardavano a giungere dalla Spagna.

Nel settembre 1529 Brindisi drammaticamente subiva le violenze dei mercenari del colonnello Simone Tebaldo che l’aveva occupata, senza colpo ferire, per la via di Porta Lecce. Le chiese depredate, le donne violentate, saccheggiati i palazzi familiari, la città subiva il cannoneggiamento delle batterie piazzate presso la chiesa di San Paolo e nel versante del Casale del Seno di Ponente. La bandiera di fanteria issata sul mastio del Castello di Terra, qualche colpo di cannone esploso incautamente verso gli edifici pubblici e le sortite notturne degli assediati rappresentavano la sola strategia della resistenza offerta dal castellano Giovanni Glianes. Assente in quanto trattenuto in Napoli per organizzare la difesa, il castellano generale Ferdinando Alarcon, da cui le due fortezze brindisine dipendevano.

All’alba del 20settembre 1529, dagli spalti del castello dell’isola la sentinella segnalò la presenza all’orizzonte, di imbarcazioni da guerra.Il capitano Tristan Dos, svegliato dal suo luogotenente Jaco De Mexia, salì di corsa le anguste e ripide scale che separavano i suoi alloggi dalla piazzola della vedetta. Non più giovanissimo, ma ancora prestante e di bell’aspetto, con lunga e fluente chioma bruna, baffi e pizzetto ben curati, il castellano cercava, correndo, di infilarsi la tracolla a cui era sospeva la spada, stringendo con la destra il suo inseparabile cappello di paglia a larga tesa.

Strattonò quasi il soldato che gli additava le indistinte sagome scure all’orizzonte. Calcatosi il cappello quasi all’altezza delle sopracciglia, portò il taglio esterno delle mani agli zigomi e si concentrò nella direzione indicata. Tutti, ufficiali e soldati, si raccolsero in silenzio dietro di lui, fissandolo magneticamente. Dopo pochi minuti che parvero ore alla piccola folla della gente d’arme, il capitano, strappandosi di colpo la paglia, quasi urlò: “Veneziani!”.

Mentre il comandante, quasi impietrito nella sua posizione, continuava a fissare il mare, i suoi uomini, bruscamente destati da una trance ipnotica, cominciavano a danzare freneticamente urtandosi e riurtandosi al suono del panico e dello smarrimento. Jaco De Mexia nascose i suoi parietali glabri nel morione istoriato e si precipitò ad issare sul pennone più alto del castello la bandiera di combattimento della Cesarea Maestà. Sebastian Pilar, ufficiale di cavalleria, dopo un cenno di assenso del suo comandante, accese fuochi sulla cortina di mezzogiorno per segnalare al presidio spagnolo del castello di terra la presenza di imbarcazioni nemiche.

Dopo un’ora le veloci galee veneziane furono all’altezza dell’imbocco del porto  e sette di esse, sfruttando il favorevole vento di levante, virarono mostrando le fiancate armate di cannoni alle cortine di mezzogiorno-levante del castello. Prima che gli uomini del castellano orientassero il tiro verso i navigli nemici, questi avevano già aperto il fuoco ed una pioggia di proiettili e palle si abbatteva sugli spalti e le mura della fortificazione.

Lo sgomento fra gli spagnoli fu grande e crebbe quando la risposta al fuoco evidenziò la corta gittata dei cannoni del castello; artiglieria di modello antiquato lì abbandonata dagli Aragonesi e dai Veneziani stessi.

In breve i legni della Serenissima circondarono l’isola, mentre la nave dell’ammiraglio Lando scortata da quattro imbarcazioni di minor stazza controllava al largo le operazioni. Per tutto il giorno Tristan Dos ed i suoi uomini, raccolti nella camera delle polveri e delle cannoniere subirono il rombo del fuoco nemico, il fragore ed il sibilo delle palle che impietose aprivano squarci e fenditure nel carparo rosso.

Sul finir del giorno, cessati i cannoneggiamenti, il comandante chiamò a rapporto nel salone di rappresentanza i suoi ufficiali ed il magazziniere. Al tetro bagliore di un lume ad olio, il morione piumato poggiato sul lungo tavolo, il volto del castellano solcato dalle rughe esprimeva tutte le sue preoccupazioni. Venti uomini tra cui sei anziani, il cuoco e il suo aiutante, un ragazzo di 16 anni con le cicatrici delle pustole vaiolose al volto. Poche salme di biscotto, quattro botti di acqua, 10 bottiglie di vino locale, una salma di sarde salate. Polveri e palle sufficienti si e no per quattro ore di fuoco continuo, dodici archibugi e sei sole colubrine efficienti. La situazione era drammatica, inutile negarlo, ma l’alternativa di arrendersi all’ammiraglio Lando non lo era da meno.

Il comandante Dos solo ora capiva le diplomatiche scuse addotte dal colonnello Urrias per rifiutare il comando dello scoglio di Brindisi. Il suo orgoglio e la sua ambizione; con queste sole “pessime” qualità del suo carattere doveva prendersela. Sull’altare della vanità aveva sacrificato tutto: affetti, famiglia ed ora anche la propria vita in quella bara di pietra a guardia di una città senz’anima, di un cimitero senza lapidi, il luogo ideale per un demente che vuol morire.

Chiamò gli uomini attorno a sè, li fissò intensamente negli occhi l’uno dopo l’altro muovendosi lentamente mentre la mano sinistra impugnava nervosamente l’elsa del suo fornimento. Quella compagnia di ventura più che un regolare presidio dell’esercito spagnolo, l’avrebbe seguito anche in capo al mondo, se necessario. Per quegli uomini il loro comandante era tutto: passato, presente e futuro e, in particolare, la possibilità di far ritorno in Spagna. Essi si accingevano, come nelle circostanze più drammatiche del loro sodalizio, a ricevere dal proprio re-sacerdote, nel silenzio del suo sguardo magico, la necessaria trasfusione di coraggio e di trascendenza che li aveva visti protagonisti vittoriosi di imprese disperate.

Con tono calmo e deciso il castellano parlò della loro situazione, della necessità ed importanza di non rispondere al fuoco nemico e di concentrare invece il fuoco delle colubrine sul bastione di ponente-tramontana. Solo da questo settore, sulla restante parte dell’Isola, dovevano essere orientate le bocche dei cannoni che ad un suo ordine avrebbero aperto il fuoco in modo seriato e cadenzato. Egli era convinto che i Veneziani avrebbero tentato uno sbarco nella parte più indifesa dello scoglio. Disse poi agli uomini, di risparmiare al massimo le munizioni e di sparare solo dietro suo ordine. Indicò nella bandiera recisa da un colpo di smeriglio e precipitata in mare, un segno da interpretare e giustamente valutare. Essi dovevano sentirsi vicini ed accomunati da un unico destino. Carlo V, la Spagna, il Vicerè e Napoli non avevano più alcun interesse: la loro vita era più importante di tutto ciò e si sarebbe combattuto solo per essa.

“Quando il silenzio scenderà dopo l’ultimo rombo del cannone”, concluse Dos e le urla dei feriti saranno coperte dall’infrangersi delle onde sugli scogli, “concentratevi su un altro segno affinchè esso sia intellegibile alle vostre menti durante la veglia e il sonno e ci dia il responso finale: la sopravvivenza o la morte”.

Le residue polveri furono equamente distribuite tra i sei migliori artiglieri. Tutti gli uomini validi ad eccezione degli archibugieri sistemati in punti strategici della rocca, si sarebbero adoperati per gli addetti alle colubrine. Pile di palle di cannone furono ben sistemate dietro ogni pezzo. L’acqua ed i pochi viveri furono razionati. La prima in particolare, doveva servire anche per raffreddare il bronzo dei cannoni.

Nel tardo pomeriggio del 23 settembre, dopo tre giorni di cannoneggiamento pressochè continuo da parte delle galee di San Marco, le manovre diversive di alcune di esse ebbero una loro logica: accostarsi il più possibile  all’isola da tramontana per tentare lo sbarco di uomini e artiglieria. Tristan Dos aveva colto nel segno. Nessuno dubitava più dei suoi poteri percettivi e della sua abilità strategica. Egli frenò l’impeto degli uomini che avrebbero voluto aprire subito il fuoco e li invitò alla calma, mentre i cecchini dagli spalti avrebbero fatto buona guardia.

All’alba del 24 altre due galee, imitando la prima, accostatesi temerariamente all’isola, iniziavano le manovre di sbarco. Non era più tempo di indugiare. All’ordine del loro comandante gli artiglieri spagnoli fecero fuoco. Il tiro radente delle cannoniere della polveriera inferiore, cadenzato con quello parabolico della soprastante si abbattè con tale potenza e precisione sugli ignari incursori veneziani che nello spazio di venti minuti di fuoco continuo ebbero perdite di 50 uomini tra morti e feriti e due galee irrimedibilmente danneggiate.

Ad ogni palla che raggiungeva l’approdo veneziano, corpi come schegge e scogli in frantumi rimbalzavano in mare. Una imbarcazione, la più vicina alle mura del castello, era in fiamme e, mostrando il fianco colpito, vomitava il suo contenuto di oggetti e di uomini, facile bersaglio degli archibugieri spagnoli. A nulla serviva l’appoggio di tiro delle altre navi della Serenissima che continuavano a colpire ripetutamente, ma inutilmente, le mura dell’inaccessibile castello. Esse non potevano coprire da tramontana gli assedianti: la loro gittata era insufficiente e rischiava di creare problemi per questi ultimi. Solo nel primo pomeriggio, riorganizzate le forze, cinque altre galee e l’ammiraglia si avvicinarono all’isola in direzione del punto di approdo stabilito dalle prime imbarcazioni. Mentre gli spagnoli si preparavano a dar fondo alle ultime munizioni, le sentinelle piazzate da Dos sugli spalti del castello osservavano un macabro espediente escogitato dagli assalitori: i corpi dei loro compagni morti venivano ammassati a mo’ di trincea e, sfruttando le asperità del terreno, pezzi di artiglieria venivano grossolanamente inseriti tra di essi.

La risposta veneziana non si fece attendere ed in breve il tiro incrociato delle artiglierie riprese a sconvolgere la superficie dell’isolotto. Più tardi un assalto con corde e rampini fu a stento respinto dagli spagnoli della polveriera inferiore dove intanto si erano celermente portati il castellano ed il suo vice. La giornata si concluse con un bilancio di cinque morti da parte spagnola e con perdite incalcolabili da parte veneziana. Un’altra sortita notturna nei pressi del portale d’ingresso al castello fu respinta da una pioggia di sassi e tufi divelti dagli spalti e buttati giù dagli uomini di guardia comandati dal Pilar.

Le prime luci del giorno del 25 settembre trovarono gli uomini del Dos stanchi ed assonnati. Accucciati sulle proprie armi da oltre 24 ore digiuni ed assetati. Il castellano, sveglio da 48 ore, accolse l’invito del De Mexia di concedersi un po’ di riposo, mentre la muta degli uomini di guardia veniva rinnovata. Una strana, insolita calma regnava nel campo veneziano; tutti, sentinelle comprese, apparivano immobili con le loro armi in pugno. Persino le vele delle galee e delle galeazze ancorate attorno all’isola ed i vessilli del leone di San Marco pendevano esanimi dagli alberi e dai pennoni.

Solo il mare, in una innaturale stasi, appena si sentiva respirare, mentre gabbiani gracidanti si affrettavano ad allontanarsi dallo scoglio intuendo quasi quello che stava accadendo. Pedro Quesada, un anziano artigliere di 65 anni, si scosse nel sonno che stava consumando prono sulla colubrina centrale ormai priva di polveri e proiettili. “Li ho visti, li ho visti” urlò, svegliando tutti, mentre gli occhi sbarrati fissavano il vuoto. “E’ uno squadrone di cavalleria con le bandiere di Sua Maestà al fronte, le fanfare ed i tamburi ai lati. Sono lì, davanti a noi, sulla costa che i paesani dicono Guasco”.

Tutti si precipitarono verso il finestrone che guardava quel lembo di mare. Ma nessuna presenza umana fu notata su quel tratto di costa. “Frutto delle sarde salate!” biascicò sbadigliando Diego Ribeira, tra l’ilarità generale. Un colpo di cannone sparato da una delle imbarcazioni veneziane riportò Tristan Dos ed i suoi uomini alla realtà.

Altri proiettili sibilarono nell’aria sollevando colonne d’acqua e tuonando contro le cortine ormai crivellate del castello. Il rullìo  di un tamburo avvertì dell’imminente assalto veneziano; la resa dei conti per gli assediati, ormai privi di munizioni e viveri, era vicina. Gli spagnoli col loro comandante in testa affilarono le lame per l’ultimo scontro e, lasciati gli archibugieri alle aperture delle cannoniere si portarono nel vano inferiore del castello presso il grande portale del versante di levante. Ogni uomo era risoluto a vendere cara la propria pelle.

Già il fuoco e le asce dei veneziani si abbattevano sul legno del portale e le corde roteavano lungo le mura ormai indifese, che un suono di fanfare e tamburi lontani giunse ai combattenti. Sulla costa Guacina, al di là della lingua di mare che separava l’isola dalla terraferma, numerosi cavalieri avvolti da un immane polverone avanzavano in ordine con la bandiera di Castiglia e Leon in testa.

La confusione tra le fila veneziane fu generale. Dopo qualche colpo di cannone sparato dalle imbarcazioni a cui seguì fuoco di risposta dai nuovi venuti, la campanella dell’ammiraglia intimò la ritirata. Precipitosamente i soldati si affollarono verso le scialuppe e, nello spazio di un’ora, già la flotta si dirigeva, col favore dei venti, verso il mare aperto. Tolto l’assedio, i superstiti, increduli di quanto accaduto, le parole profetiche del vecchio Quesada nella mente, curiosamente scrutarono la costa dove gente d’arme salutava e urlava gioiosamente. Una scialuppa calata in mare da quel punto, raggiunse ben presto l’isola. In essa era il castellano del castello grande di Brindisi, Giovanni Glianes con alcuni uomini del presidio ed alcuni rappresentanti dell’Università ( Università erano, nel Medioevo, i comuni dell’Italia meridionale ndr).

Dopo una calorosa stretta di mano tra i due castellani e l’onore delle armi reso ai superstiti del castello dello Scoglio, la spiegazione dei fatti. Ucciso da un ignaro cecchino paesano appostato sulle mura del Castello di Terra, il colonnello Simone Tebaldo, l’esercito mercenario della Lega si sbandò per le campagne del brindisino e del mesagnese.

Alloggio del castellano

Cessato l’assedio di Brindisi, certo dell’impossibilità di ricevere aiuti in tempo utile da Napoli, Giovanni Glianes ordinò a trenta uomini della sua guarnigione di sellare i propri cavalli e di bardarne altri dieci recuperati nella città, con frasche e fascine così da sollevare strada facendo un gran polverone. Tamburi, trombe e due spingarde trascinate sui propri fusti a ruote fecero il resto.

In piedi nella barca che lo stava portando in città Tristan Dos osservava quella fortezza stagliarsi come un solitario sepolcro sullo specchio dorato del mare. Gli sembrava di scorgervi per uno strano gioco di luci, quasi la lastra di copertura con l’epitaffio scritto da frotte di gabbiani tornati possessori della rocca. Un sepolcro vuoto come quello del Cristo risorto.

La sua esperienza e quella dei suoi aveva trasceso la semplice dimensione umana. Una occulta, invisibile catena li avrebbe uniti per sempre; sarebbe diventata il loro talismano contro la morte.

“Vostra Maestà sarà stata informata di come i nemici cercarono prendere Brindisi e dell’attacco sferrato a quella rocca dell’isola e di come essendosi ben portato Tristan Dos il quale qui era stato inviato dal Principe d’Orange al posto del comandante Urrias, l’abbia dunque trovato sprovvisto di ogni mezzo di guerra, di viveri e di gente per tutto il tempo di sei giorni necessario a difenderla. Dico ciò a Vostra Maestà affinchè nessun altro ufficiale ivi inviato, per sua sventura, venga più a subire tanto…”

G. Donis, Napoli 1.X.1529 (Legajo 1005-108. Archivio Generale di Simancas. Valladolid)

Giuseppe Maddalena per “Forte a mare – Simbolo per il recupero architettonico del Salento”. Prodotto dalla Camera di Commercio di Brindisi in collaborazione con l’Associazione “Amici di Forte a Mare” (Brindisi- Maggio 1986). Ed. Salentina, Galatina (Le).

Nostre foto scattate di sera, dopo il restauro effettuato – 29/08/2021

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Note:

(*) Il complesso monumentale del castello Alfonsino e della Opera a Corno, note come le fortezze dell’Isola, è posto all’interno dell’Isola di Sant’Andrea che, a partire dall’inizio del XX secolo, è stata unita alla terraferma per mezzo della diga di Bocche di Puglie.

(**) La battaglia di Otranto è il nome con cui è conosciuto il combattimento nell’omonima città salentina del 1480, quando un esercito ottomano, in realtà diretto a Brindisi, ma dirottato più a sud da un forte vento di tramontana attaccò la cittadina allora appartenente agli Aragonesi. Il luogo dello sbarco avvenne su una spiaggia a nord di Otranto che prese il nome proprio da quest’avvenimento tutt’oggi chiamata baia dei turchi. La città fu posta sotto assedio per circa due settimane e i suoi abitanti si rifugiarono all’interno delle mura resistendo e respingendo con vigore le offese. Una volta, però, che i turchi riuscirono ad aprire una breccia, gli otrantini (per la maggior parte disarmati) non riuscirono a contenere la furia degli invasori soccombendo sotto i colpi di scimitarra. I bambini più fortunati furono presi e portati in Turchia per fare da schiavi, altri furono violentati e uccisi con le donne, altri ancora dovettero subire tremende mutilazioni.
Al termine della battaglia, il 14 agosto 1480 furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i Santi Martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese. (Wikipedia)

(***) Scheda storica di approfondimento – http://www.provincia.brindisi.it/index.php/component/content/article/61-cultura/storia-e-tradizioni/134-il-castello-alfonsino-e-il-forte-a-mare

(°) Si precisa: Tutte le attribuzioni araldiche del castello e del forte sono riportate nel libro:  MADDALENA G. – TARANTINO F.P., Delle insegne che ancora veggonsi nella città di Brindisi, Brindisi 1989.


Ringraziamenti:

Un ringraziamento all’amico Mario Carlucci che ha collaborato con me nella ripresa delle immagini.

Si ringrazia Danny Vitale per aver gentilmente fornito le foto dall’alto del Castello Alfonsino e di Forte a Mare

Un ringraziamento speciale al Dr. Giuseppe Maddalena che ha autorizzato la ripubblicazione del suo racconto “Sei giorni per Tristan Dos” che, anche se in chiave romanzata, si ispirava ad un dispaccio “autentico” per la corte di Spagna; documento che aveva recuperato, come lui stesso ci ha detto in un suo bellissimo messaggio di fiducia e di speranza verso il Castello, presso l’archivio di Simancas.

Bibliografia e sitigrafia:

“Legenda: allo scopo di non tediare il lettore con la ripetizione delle fonti citate, è stato attribuito un numerino per ogni opera consultata, che si ritroverà al termine della citazione e che consentirà l’esatta attribuzione bibliografica o sitografica.”

(1) Storia e cultura dei monumenti brindisini, di Rosario Jurlaro.Ed. Amici della “A. De Leo” Brindisi – Stampato negli stab. di Ed. Salentina, Galatina 1976.

(2) http://granafert.it/la-citta/castello-alfonsino.html

(3) Brindisi Nuova Guida, di Giacomo Carito. Ed. Prima, Italgrafica Edizioni Srl – Oria 1993

6 commenti

  1. Accidenti, questi spagnoli che si difendono sembrano i Tigrotti di Mompracem comandati da Sandokan !

    1. Ciao Alfio, come avrai letto, nel 1715 l’intera guarnigione, composta da 700 spagnoli insieme al castellano Ferreyra, prese la decisione di non tornare in patria e rimanere a Brindisi ove, probabilmente, aveva oramai messo radici. E, questi “spagnoli”, oramai a tutti gli effetti non più tali, si confusero con la popolazione, lasciando come unico segno della loro origine probabilmente il solo cognome, come è stato evidenziato in altro articolo del blog, e come è testimoniato dalla presenza in città di tanti cognomi di origine spagnola, tra cui – forse – anche il mio.

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