Pinacoteca di Brera a Milano

La Pinacoteca di Brera venne ufficialmente istituita nel 1809, sebbene una prima eterogenea raccolta di opere fosse già presente a partire dal 1776,  con finalità didattiche, a fianco dell’Accademia di Belle Arti voluta da Maria Teresa d’Austria. Il corpus doveva infatti costituire una collezione di opere esemplari, destinate alla formazione degli studenti.

 

Quando Milano divenne capitale del Regno Italico la raccolta, per volontà di Napoleone, si trasformò in un museo che intendeva esporre i dipinti più significativi provenienti da tutti i territori conquistati dalle armate francesi. Brera quindi, a differenza di altri grandi musei italiani, come gli Uffizi ad esempio, non nasce dal collezionismo privato dei principi e dell’aristocrazia ma da quello politico e di stato. Infatti a partire dai primi anni dell’Ottocento, anche in seguito alla soppressione di molti ordini religiosi, vi confluirono i dipinti requisiti da chiese e conventi lombardi, cui si aggiunsero le opere di identica provenienza sottratte ai vari dipartimenti del Regno Italico. Questa nascita spiega la prevalenza, nelle raccolte, dei dipinti sacri, spesso di grande formato e conferisce al museo una fisionomia particolare, solo in parte attenuata dalle successive acquisizioni.

La Pinacoteca, insieme con l’Accademia di Belle Arti di Milano, la Biblioteca Nazionale Braidense, il piccolo Orto Botanico e il nucleo storico dell’Osservatorio Astronomico, ha legato il suo nome al palazzo di Brera, monumentale e austero complesso architettonico che si dirama tra la via omonima e via Borgonuovo, dove sino al 1773 aveva sede il collegio dei gesuiti. In quell’anno la compagnia di Gesù venne sciolta da papa Clemente XIV e il palazzo (compresa la ricchissima Biblioteca gesuitica) fu statalizzato. Gli Asburgo acquisirono l’insieme di edifici e gli spazi verdi attigui  confermandone l’uso a fini educativi, di studio e di ricerca ad indirizzo rigorosamente laico.

Sala della Biblioteca Nazionale Braidense

Orto Botanico

Incaricato della progettazione e prosecuzione dei lavori fu Giuseppe Piermarini, uno dei protagonisti del Neoclassicismo in Italia. A lui si devono la sistemazione della biblioteca (un salone è visibile dalla sala I della Pinacoteca), il solenne portale di ingresso su via Brera, ed il completamento del cortile, al cui centro fu posta nel 1859 la statua bronzea che raffigura Napoleone in veste di Marte pacificatore. La statua in bronzo, alta 3 metri, fu commissionata nel 1807 ad Antonio Canova da Eugène de Beauharnais, vicerè d’Italia, dopo l’eccezionale risonanza che il marmo di analogo soggetto aveva suscitato a Roma. Dopo la fusione, il 20 agosto 1812 l’opera giunse a Milano, ospitata nel cortile del Palazzo del Senato in attesa che fosse stabilita la sua migliore collocazione. La nudità della statua, infatti, destava molte perplessità, non essendo ritenuta adatta a un luogo pubblico; d’altronde lo stesso Napoleone aveva poco apprezzato la scultura in marmo: più che essere idealizzato nella “nudità eroica” delle raffigurazioni antiche che lo assimilava a una divinità o a un imperatore romano, avrebbe preferito essere ritratto nelle vesti contemporanee di militare o uomo politico. Con la caduta dell’impero napoleonico, nel 1814 la fusione fu trasferita nel Palazzo di Brera per essere conservata nei magazzini. Solo nel 1859, alla conclusione della II guerra d’Indipendenza, il bronzo fu collocato nel cortile d’onore.

Napoleone in veste di Marte pacificatore, Antonio Canova

Napoleone in veste di Marte pacificatore, Antonio Canova

Nel corso di tutto il XIX secolo logge, cortili, atri e corridoi furono destinati ad ospitare monumenti che celebrassero pubblicamente artisti, benefattori, uomini di cultura e di scienza legati all’istituzione braidense. Tra gli esempi migliori di questo ricchissimo e poco conosciuto arredo sono i monumenti a Cesare Beccaria di Pompeo Marchesi ed a Giuseppe Parini di Gaetano Monti, visibili sullo scalone di accesso alla Pinacoteca.

Il carattere di collezione straordinaria appare al visitatore sin dall’inizio, varcata l’entrata al museo, quando lungo le pareti del corridoio d’ingresso si possono ammirare un susseguirsi di affreschi strappati da importanti edifici di Milano. Si entra così nella storia della città, immergendosi nell’arte della pittura e nelle emozioni che può suscitare.

Gli affreschi strappati dell’Oratorio di Mocchirolo che, insieme a un nutrito gruppo di pitture sul territorio, testimonia stilisticamente l’ampia diffusione del “grido” giottesco in quella Lombardia viscontea che aveva accolto nel 1336 il maestro toscano. Un ciclo figurativo fondamentale, la cui presenza a Brera fu fortemente voluta dall’allora direttrice Fernanda Wittgens.


La collezione di opere della Pinacoteca di Brera contiene alcuni tra i massimi capolavori dell’arte mondiale. Da’ il benvenuto ai visitatori questo calco in gesso preparatorio del Napoleone in veste di Marte pacificatore di  Antonio Canova. Dall’originaria statua in marmo conservata oggi a Londra erano stati ricavati cinque calchi in gesso: uno di questi, inizialmente destinato alla biblioteca dell’Università di Padova, fu acquistato dal Beauharnais per l’Accademia di Brera. Nel 1809 il calco fu esposto nei saloni napoleonici della Pinacoteca braidense, ma con il ritorno degli austriaci fu smontato e nascosto nei magazzini dell’Accademia, da dove è stato recuperato e ricollocato in museo nel 2009.

 

Napoleone in veste di Marte pacificatore, Antonio Canova, gesso preparatorio

I capolavori di Brera

Il bacio, Francesco Hayez, 1859

La tela fu presentata all’Esposizione di Brera del 1859, che a pochi mesi di distanza dall’ingresso di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III a Milano celebrava il successo delle lotte risorgimentali, ma entrò in Pinacoteca solo nel 1886 grazie al legato di Alfonso Maria Visconti, che l’aveva commissionata.
È una delle immagini simbolo della Pinacoteca e forse il dipinto più riprodotto di tutto l’Ottocento italiano, nata dall’intento di simboleggiare l’amore di patria e il desiderio di vita della giovane nazione che usciva dalla seconda guerra di indipendenza e che tante speranze poneva nei nuovi governanti. Ebbe immediatamente uno strepitoso successo sia per le sue valenze patriottiche sia per l’ispirazione medievale del soggetto, esemplare del gusto romantico del tempo; il pubblico si entusiasmò per l’audacia del bacio, ma riconobbe anche il messaggio patriottico dei colori: le calze rosse e il risvolto verde del mantello, accostati alla veste azzurra e bianca evocano le bandiere d’Italia e Francia.
Hayez ne realizzò altre versioni, oggi conservate in diverse raccolte europee.

Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, Andrea Mantegna, 1483

L’ipotesi più accreditata, nonostante le incertezze dovute all’esistenza di diverse varianti dello stesso soggetto, identifica il dipinto di Brera con il Cristo in scurto ritrovato nello studio di Mantegna all’atto della sua morte, venduto poi dal figlio Ludovico al cardinale Sigismondo Gonzaga e inventariato tra i beni dei signori di Mantova nel 1627.

La sorte successiva del dipinto è tuttora oggetto di discussione fra gli studiosi, alle prese con una intricata serie di passaggi di proprietà solo parzialmente e confusamente documentati.

La composizione produce un grande impatto emotivo, accentuato dall’impressionante scorcio prospettico: il corpo di Cristo è vicinissimo al punto di vista dello spettatore che, guardandolo, è trascinato al centro del dramma; inoltre, ogni dettaglio viene esaltato dal tratto incisivo delle linee, che costringono lo sguardo a soffermarsi sui particolari più terribili, sulle membra irrigidite dal rigor mortis così come sulle ferite, ostentatamente presentate in primo piano come stabilito dalla tradizione di questo genere d’immagine.
Si tratta di un vertice assoluto della produzione mantegnesca, un’opera che per la forza espressiva, per la severa compostezza e per la maestria della finzione prospettica è diventata uno dei simboli più noti del Rinascimento italiano.

“Ciò che Mantegna fa è utilizzare una figura posta in uno scorcio prospettico davvero stupefacente, per intensificare la potenza dell’immagine come oggetto di meditazione. Per questo era cruciale il trattamento dei piedi: se Mantegna avesse usato un metodo meccanico avrebbe finito per ottenere una figura con le estremità enormi e una piccola testa. […] Mantegna si dedicò alla questione studiando empiricamente una figura maschile sdraiata su un tavolo o su una piattaforma, vista lievemente dall’alto, e poi riorganizzando i risultati di questo studio con l’intenzione di creare un’opera d’arte dall’impatto potente.”
~ Estratto dal catalogo del Dialogo “Attorno a Mantegna”

DIDASCALIA D’AUTORE

Avete mai visto un Cristo così? L’estremo scorcio prospettico del corpo è sconvolgente, quasi blasfemo. Non c’è speranza di resurrezione su quel tavolo freddo da obitorio. Eppure la Sua presenza è molto intensa: le mani contorte, le ferite ormai secche, i lineamenti forti e le pieghe scolpite del sudario. Almeno Maria può piangere, mentre noi ci sentiamo intrusi, guardoni. Vi pare strano che questo dipinto non abbia mai lasciato lo studio di Mantegna? Chi avrebbe potuto comprarlo? E lui, come avrebbe potuto lasciarlo andare?
Sarah Dunant

Natura morta con le uova,  Filippo de Pisis, 1924

«Omne vivum ex ovo», dicevano i latini, «tutto ciò che vive viene dall’uovo»: dall’uovo nasce la vita che a sua volta veniva associata con la Resurrezione dalla morte di Gesù e quindi con la Pasqua.
L’usanza dello scambio delle uova pasquali nasce forse tra i primi cristiani, in Mesopotamia: colorate di rosso per ricordare il sangue di Cristo, decorate spesso con croci, secondo una tradizione che dura ancora oggi nei paesi ortodossi e cristiano-orientali.
Anche Filippo de Pisis, nella sua studiatissima Natura morta con le uova del 1924  affronta il tema: tre uova sode sono collocate su un’alzata in candida ceramica smaltata, accanto a un bicchiere di vetro colmo d’acqua con un quadrifoglio, uno degli oggetti feticcio che l’autore amava rappresentare.
La realtà quotidiana, apparentemente salda e indagata nelle forme tridimensionali, diviene improvvisamente sfuggente nell’accentuato scorcio prospettico dello sfondo sulla sinistra, con quegli angoli acuti che provocano un bizzarro slittamento nella visione: lo spettatore si accorge solo successivamente della presenza di un secondo ambiente, oltre a quello frontale della composizione immobile e inscenata con cura. Il primo piano riluce in un accurato accordo di toni chiari, ma la purezza tipica del “ritorno all’ordine” degli anni Venti convive con lo sguardo obliquo, spiazzante e metafisico di De Chirico.

Didascalie @pinacotecabrera

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