Pagghiare salentine

Brundarte fotografa alcune delle antiche pagghiare salentine (o pajare) nei pressi dell’abbazia di S. Maria a Cerrate. Si tratta di strutture rurali realizzate con la tecnica dei muri a secco e costruite con massi recuperati dai contadini dal dissodamento del terreno, sovrapposti poi senza alcun ausilio di materiale cementizio secondo una tecnica costruttiva che, dalla sua comparsa in epoche antichissime ad oggi, si è tramandata di padre in figlio senza risentire del fascino degli stili.

Le paiare si presentano a forma piramidale o quadrata, a forma tronco-conica o tronco-piramidale, singole o a coppia, isolate al centro delle unità particellari o sistemate sui confini per non togliere spazio alle colture. Erano e sono a base rettangolare o circolare, in quest’ultimo caso vantano però spesse mura perimetrali disposte ad anelli concentrici che, sovrapposti, formano degli ampi gradoni. Nell’interno la copertura è chiusa da una volta a cupola e detta tecnica può benissimo essere considerata l’antesignana della costruzione delle tipiche volte in pietra leccesi. Le costruzioni presentano di norma un’unica camera senza finestre verso l’esterno.
Vi era sempre una scala esterna addossata alla costruzione, non per motivi estetici o stilistico-architettonico, bensì per una ragione pratica: era fondamentale poter salire sulla costruzione in modo rapido e agevole ai fini della riparazione del tetto, che rispetto al resto del fabbricato era molto più fragile. I massi utilizzati per la costruzione della scala non erano semplicemente addossati al muro della struttura, essi facevano e tuttora fanno parte integrante del muro, in corrispondenza dei gradini erano appositamente cercati e posizionati massi di dimensione maggiore, tali da permettere di costruire il muro e contemporaneamente, grazie alla sporgenza, il profilo della scala. 
Il procedimento costruttivo presenta poche varianti; anzitutto bisogna precisare che come attrezzo si usava solo un martello di forma particolare, avente una duplice funzione: da un lato esso serviva per assestare le pietre e dall’altro a smussarle leggermente. Pietre queste, mai cementate (trattasi di costruzioni interamente a secco) e, generalmente, non squadrate (a causa del tipo di roccia calcarea difficile a tagliarsi in forme regolari).Gli edifici più grandi raggiungono altezze di circa 14 metri e muraje di 6 metri. All’altezza prestabilita il muro verticale viene spianato e i successivi strati di pietra vengono disposti leggermente inclinati verso l’interno (..).
Le pietre di un medesimo strato, che si contrastano lateralmente costituendo un sistema anulare pressoché rigido, pur senza armatura e senza malta, si sorreggono tra loro esclusivamente attraverso i contrasti e per la forza di gravità. I successivi e pertanto sovrastanti anelli sono, come detto, leggermente aggettanti verso l’interno grazie all’utilizzo di pietre più lunghe, avendo così un diametro che si riduce progressivamente, sino a raggiungere la lunghezza di circa 30-40 cm. A questo punto viene posta una grande lastra (“chiànca”), in funzione di chiave dell’intera struttura ed a copertura dell’apertura.
La costruzione trulliforme è la dimora più adatta per le nostre campagne, in quanto, considerando che le estati sono molto calde e gli inverni relativamente rigidi, grazie allo spessore delle “muraje”, tra il pietrame più piccolo utilizzato per colmare l’intercapedine si forma una camera d’aria che funge da ottimo coibente della temperatura esterna. In estate, la famiglia del contadino si trasferiva in campagna per raccogliere, tagliare, essiccare e cuocere i fichi (“fare le fìche”). Al trasloco concorreva tutta la famiglia, anche se le masserizie da trasferire erano poche: i cavalletti in legno per il letto (“nù pàru de tristèddhi”), tre tavole per lo stesso, un tavolo (“la bànca”), un treppiedi per cucinare, un tegame in rame stagnato (“la farsùra”) e pochi piatti di terraglia. La famiglia si snodava lungo la via campestre, in fila indiana, ed ognuno portava qualcosa. All’interno del riparo c’erano dei recipienti per l’acqua (“lu ‘mmìle, lu tràfulu o la capàsa”), mentre l’illuminazione era ottenuta mediante delle lucerne ad olio. Pertanto la paiara all’interno presenta temperature miti in inverno e fresche durante la stagione estiva. Inoltre la sua struttura è anche resistente ai movimenti tellurici in quanto la passività della sua compagine muraria assorbe, in parte, le vibrazioni del terreno senza crollare.
Le nostre pajare sono tutte munite di una o più scale esterne a spirale, ricavate dallo spessore della muraja; questo fa assomigliare l’intera struttura ad una gigantesca chiocciola.
Le Liàme
Nel territorio salentino esistono anche delle costruzioni simili, come le Liàme; con tale termine viene indicato un riparo di campagna, con pianta quadrangolare o rettangolare e volta a botte. I muri perimetrali di tali costruzioni sono anch’essi, come nel caso dei ripari trulliformi, in pietra a secco, mentre la volta a botte è costruita grazie all’utilizzo di blocchi di pietra tufacea (“pièzzi de càrparu”). Queste costruzioni permettevano una terrazza più spaziosa di quella del trullo (la terrazza piatta costituisce forse l’unica differenza con trulli e pagghiare), per i diversi usi, come essiccare le “fiche”, per cui il termine liàma deriva dalla loro ampia terrazza (in effetti nel dialetto salentino “liàma” = terrazza).

Le nostre foto

 Pagghiara a base circolare
Pagghiara a base rettangolare
 (da una ricerca condotta da N. Febbraro per Salveweb.it)

2 commenti

  1. Molto interessante, grazie
    Stefania.

  2. Molto interessante la documentazione di questo aspetto, grazie
    Stefania.

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